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Il Monte Arcibessi

Il monte Arcibessi

Veduta del Monte Arcibessi innevato - https://it.wikipedia.org/wiki/File:Arcibessi.jpg

di Federico Guastella

     Della raccolta della neve, diffusissima in Sicilia dai Peloritani ai Nebrodi, dalle Madonie all’Etna,  interessante è la descrizione di Giuseppe Pitrè1

     “… Il nevaiuolo attende il mese di febbraio, e giorno per giorno, nelle prime ore del mattino, guarda se vi sia la neve in montagna, e non così tosto ne vede, che per un banditore fa invitare nel paese più vicino ad essa quanti vorranno andare con lui a raccoglierne: fino al 1873, una lira a persona, pane e vino a piacere; adesso il doppio od il triplo (…). Dopo due ore di viaggio, si è sul posto. La ciurma è divisa: parte alla preparazione delle fosse, parte alla raccolta della neve formandone grandi palle, e spingendola a forza di braccia verso la bocca di quelle. Mano mano che le palle precipitano nelle fosse, se ne assicura la conservazione con forti e ripetuti colpi di mazze fino a renderla quasi liquefatta e quindi priva di aria. Allora viene lasciata fino a riacquistare la consistenza primitiva, quasi di ghiaccio. Questo primo strato si copre di paglia (…). La neve, tagliata a pezzi, vien trasportata di notte in città. Ciascun pezzo di 156 chilogrammi è coperto di paglia e chiuso in sacchi di telaccio. Due di essi sogliono caricarsi sopra un mulo.”

     Anche il monte Arcibessi, dallo sguardo benigno puntato sul paese di Chiaramonte Gulfi, è stato luogo di neviere (i niveri): rutti, cioè grotte naturali e spesso ingegnosi ipogei artificiali generalmente con copertura a cupola e muratura interna, già utilizzate dagli Arabi per la conservazione della neve. In particolare, dal Seicento all’Ottocento fino agli anni cinquanta del Novecento2. La neve raccolta, che veniva agglomerata in forma più o meno sferica e fatta rotolare fino all’imboccatura, nel periodo estivo era commercializzata a forma di blocchi di ghiaccio. L’economia paesana, attorno alla quale ruotavano padroni, affittuari, operai esperti nel settore, raccoglitori (nivaroli o nevaiuoli), trasportatori, era fiorente. Anche lo Stato aveva il suo guadagno per l’imposizione del dazio su questo prezioso bene naturale. Gli introiti erano assicurati, e si poteva disporre di un sufficiente reddito. Ce n’era di bisogno per le tristi condizioni di vita che nel periodo invernale si facevano sentire a causa dell’improduttività agricola. Non a caso il proverbio recitava: Sutta a nivi pani, sutta l’acqua fami (“sotto la neve pane, sotto la pioggia fame”). Dal monte al paese si facevano più viaggi nel corso della giornata. Erano i cavaddara a trasportare la neve, in grosse balle pigiate e coperte da foglie o avvolte dentro la paglia, a dorso di mulo lungo impervie trazzere per poi raggiungere coi carretti diverse località fino alla marina. Da lì l’imbarco del carico per Malta. Si rinfrescavano le bevande non solo per il piacere del gusto, ma anche perché si credeva che il freddarle fosse utile per la salute. Per la cura di infiammazioni, in particolare. Si ottenevano granite, sorbetti, gelati e si utilizzava il ghiaccio per cure mediche, tant’è che in ogni città il decurionato provvedeva a istituire la “bottega del ghiaccio”. Tutti erano attratti in estate dal desiderio per le cose fredde. Anche la gente povera non rinunciava all’acquisto di qualche pezzetto di ghiaccio presso il venditore che girava per le strade con il carrettino. Portava con sé una sega da falegname per poterlo tagliare (anche una specie di punteruolo o una lima o un cacciavite per spezzettare quei blocchi tenuti avvolti in coperte di lana militare). Ma l’Arcibessi va anche ricordato per essere legato al rito di un’arcaica religiosità. La testimonianza proviene da un testo trascritto da S. A. Guastella nell’opera L’antico carnevale della contea di Modica3.

     “Nel primo di febbraio, vigilia di Maria della Purificazione, le contadine di Chiaramonte avevano per costume di recarsi all’Arcibessi, montagna che sovrasta il paese, e quivi purificarsi mercé l’abluzione della rugiada. Salivano esse a frotte, appena spuntata l’alba, e in atto di compunzione sincera andavan recitando il rosario della Madonna, ma appena giunte al luogo prefisso, cantavano a coro, e ciascuna per sé la lauda seguente, che quantunque rozza, ha il pregio di una semplicità, e di una divozione sì schietta, che di rado s’incontrano nelle nostre laudi volgari.

Iamunìnni a la muntagna
c’è Maria ca n’accumpagna :
n’accumpagna sta matina,
ppi cuggìrini l’acquazzina.
L’acquazzina è n’à spunzèra,
biniricìtini li pinzera :
l’acquazzina è ni la menta,
biniricitini i sintimenta :
l’acquazzina è n’ ‘e violi,
biniricitini li paroli :
l’acquazina è ni li puma,
biniricitini la pirsuna :
l’acquazzina è ni li satri,
biniricitini, Bedda Matri :
c’è Lucifru ca ni ‘ntanta,
biniricitini, Matri
Santa4.

"Neviera" sul Monte Serra Burgio, accanto al Monte Arcibessi. https://it.wikipedia.org/wiki/Monte_Arcibessi#/media/File:Neviera_Arcibessi.jpg

     E, dopo aver recitata la lauda s’inginocchiavano, e, diguazzando le mani per entro all’erbe stillanti di rugiada, snocciolavano un’ave, e si segnavano in fronte col dito umido; poi un’altra avemaria, e un segno di croce sul petto, e finalmente una terza ave, e una croce sul labbro.”

     Come non ripensare al significato purificatorio delle februae romane – strisce tagliate da pelli di capra sacrificate che i giovani sacerdoti (“luperci”) portavano attorno alle anche – i cui riti si svolgevano nel mese di febbraio per esorcizzare il male proveniente dall’attacco dei lupi famelici durante il lungo periodo invernale? Salire sulla montagna con la devozione ad un luogo sacro per le contadine chiaramontane era un modo di accedere alla purificazione attraverso la richiesta di benedizioni e l’orazione di ringraziamento. Un rito, dunque, che è canto di luce, antica memoria di un matriarcato di saggezza legato al senso della divinità insita nella natura, voci di preghiera di lontane tradizioni, vissute in un legame di gruppo e di partecipazione.

Federico Guastella

Ragusa, 10 giugno 2023

Note:

1. G. Pitrè, Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende, Usi del popolo siciliano, con un’Appendice di tradizioni delle colonie albanesi … Palermo, A. Reber, 1913, pp. 317-322.  Cfr.: Quotidiano “La Sicilia”, 22 gennaio 1989. Per altre dettagliate notizie, lo studioso insigne di tradizioni popolari fa riferimento al libro del geologo francese Lacroix sulla Eruzione dell’Etna del 1908.

2. G. Pitrè, Cartelli, Pasquinate, Canti, Leggende, Usi del popolo siciliano, con un’Appendice di tradizioni delle colonie albanesi … Palermo, A. Reber, 1913, pp. 317-322.  Cfr.: Quotidiano “La Sicilia”, 22 gennaio 1989. Per altre dettagliate notizie, lo studioso insigne di tradizioni popolari fa riferimento al libro del geologo francese Lacroix sulla Eruzione dell’Etna del 1908.

3. Ristampa del 1887 con l’introduzione di Natale Tedesco, Edizioni della Regione siciliana, Palermo, 1973, pp. 61-62.

4. “Andiamo sulla montagna / c’è Maria che ci accompagna : / ci accompagna questa mattina, / per raccoglierci la rugiada. // La rugiada è nello spugnolo, / benediteci i pensieri : / la rugiada è nella menta, / benediteci i sentimenti : / la rugiada è sulle viole, / benediteci le parole : / la rugiada è sui meli, / benediteci il corpo : / la rugiada è sul timo, / benediteci bella Madre : / c’è Lucifero che ci tenta, / benediteci, Madre Santa”.

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