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C’era una volta… il Castello di Ragusa

C'era una volta... il Castello di Ragusa

di Federico Guastella

 

        A seguito dell’ultima distruzione di Camerina, avvenuta ad opera dei Romani nel 258 a. C., Ragusa perde il suo prestigio territoriale, ma lo riacquista con i Bizantini: divenendo importante base militare, venne cinta con mura di massi squadrati, citate dall’Orsi nel 1899. Di certo, la fiscalità dell’amministrazione produsse conseguenze negative anche se l’agricoltura, rispetto al periodo romano, ebbe lo sviluppo della produzione granaria unitamente ad una profonda trasformazione dell’insediamento abitativo. Sorsero gli oratori e i cenobi e furono le comunità monastiche ad incrementare l’economia agricola con l’apporto di manodopera locale. Intorno al colle di Ibla continuò e si diffuse l’uso dell’abitazione rupestre sia per le esigenze lavorative dei campi che per motivi difensivi dalle incursioni vandaliche; sia pure faticosamente si formò una piccola proprietà attraverso le prime concessioni enfiteutiche.

        Va evidenziato un fatto nuovo rispetto all’uso delle grotte sui versanti dei colli, messo in luce da Aldo Messina nell’opera Le chiese rupestri nel Val di Noto, che ha scritto di fattorie fortificate lungo il versante africano degli Iblei, giacché a partire dal V secolo l’insicurezza fu una condizione quasi permanente della campagna siciliana. Prima per le incursioni vandaliche, poi per le razzie arabe. Il “megalitismo” sembra una delle risposte, insieme al processo di “incastellamento” del territorio. E’ nel periodo bizantino che, oltre al castello, sorge l’etimo più accettato del nome Ragusa. Vediamone il motivo. Una piccola e media classe di coloni ebbe concessioni di terre in locazione o in enfiteusi per la produzione di grano necessario agli approvvigionamenti dei militari: perciò, è abbastanza convincente che, nel periodo fra il V e il VI secolo, secondo l’ipotesi avanzata dal filologo siciliano Alessio, l’origine del nome della città sia derivata dal bizantino “Rogós”, cioè “granaio”,  ipotesi considerata la più attendibile.

Castello di Ragusa - ca. 1600 Autore anonimo - fonte: Wikipedia

        Per Cristoforo Scanello, che nel 1678 a Napoli pubblicò Cronica di Sicilia, la costruzione del castello fu una monumentale fortezza ad opera dei ragusei dalmati, quasi inespugnabile con vari baluardi, con sotterranei per le comunicazioni al di fuori di esso e per i soccorsi con l’esterno in caso di necessità durante un eventuale assedio. La notizia si legge nel modicano Placido Carrafa che cita anche Luigi Groto detto il “Cieco d’Adria”. E già lo storico e teologo bolognese Leandro Alberti, nell’opera Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l’origine et le Signorie delle Città et delle Castella (Bologna, 1550), aveva sostenuto che il castello fosse stato fabbricato dai Ragusei che quivi  passarono ad abitare. Era il castello destinato ad accogliere governanti e amministratori, organi di vigilanza e di difesa.

        Ben fortificata dunque la città, le cui porte di accesso, secondo le dettagliate notizie di Eugenio Sortino Trono, dovettero essere cinque o sei. Si potrebbe dire che, secondo il prof. Giorgio Flaccavento, con i bizantini si delineano i fattori di lunga durata dello sviluppo ragusano: in primo luogo, si sviluppa la produzione granaria e di carni con l’introduzione ad essa connessa di favorevoli contratti di locazione o di enfiteusi; in secondo luogo, la prima timida apparizione di una classe di coltivatori legata alla massa (i massari) può godere, se non della piena disponibilità, almeno di un sicuro legame con la terra. Coloni e servi della gleba abitano modesti villaggi, sorti in questo periodo, frequenti nell’altopiano in funzione della produzione granaria, gran parte della quale veniva ammassata nel granaio collettivo entro la città murata (Kastron), al riparo dal pericolo di razzie arabe che a partire dal 652 diventavano sempre più frequenti. Gli Arabi, saccheggiatori dei territori, secondo una leggenda popolare non coincidente con le notizie fornite da Michele Amari che riferiscono dell’abbattimento castellizio, tentarono invano di espugnarlo.

Ruderi del Castello di Ragusa - fonte: Archivio di Stato di Ragusa

        Scrive Raffaele Solarino nell’opera La Contea di Modica. Ricerche storiche vol. I: “La tradizione popolare vorrebbe far credere che dopo aver sostenuto un lungo assedio, gli abitanti di Ragusa vinti dalla fame erano sul punto di rendersi, ma con un’astuzia vollero ostentare al nemico un’abbondanza di munizioni da bocca, gettando, gettando fuori le mura quantità di ricotta ottenuta dal latte delle donne, e che i musulmani, disperando che il castello si fosse reso per fame tolsero l’assedio. Come si vede la tradizione è in disaccordo con le cronache arabe del tempo (…). Altronde l’identica tradizione coeva si trova a S. Fratello, e quando le tradizioni si somigliano, ispirano ben poca fiducia”. In effetti, fu la fame che costrinse Ragusa alla resa. Così l’Amari: “Guasti adunque i campi della Sicilia in ogni estate dai Musulmani, e l’842 anche dalle cavallette, si patì dell’848 una fame sì cruda, da farsene ricordo tra tante calamità. E forse fu quella carestia che domò Ragusa, forte castello in Val di Noto, surto o appellato sotto la dominazione bizantina, col medesimo nome della città di Dalmazia. I valorosi abitatori di Ragusa in Sicilia scossero poi sovente il giogo musulmano; ma dell’848 si arresero senza battaglia al tristo patto di abbandonare tutta la roba ai vincitori; i quali ne presero quant’ei si fidarono di portarne; e prima d’andar via abbatteron le mura”. Anche l’Amari sosteneva che Ragusa fosse stata una presunta “colonia dalmata”, ma senza alcun riscontro nelle fonti storiche malgrado le suggestive verosimiglianze, confutate da Vito Amico nel suo Dizionario topografico della Sicilia. I normanni con Goffredo resero il castello più poderoso con imponenti mura, altissime torri con feritoie e due gallerie segrete per il rifornimento di acqua potabile: una verso nord, l’altra verso mezzodì; la prima conduceva alla Fonte di Propenso, la seconda alla Fonte del Pozzo. I Chiaramonte con Manfredi I e III vi eseguirono opere imponenti per renderlo più imprendibile e vi eressero il loro palazzo.

Ragusa Ibla - Ex Distretto Militare - foto di Pippo Palazzolo

        Oltre al Lauretta, il cui manoscritto è riportato da Sortino Trono nell’opera I Conti di Ragusa e della Contea di Modica (1907)¹, a parlare del loro palazzo fu un “Anonimo” nel suo manoscritto sulla Ragusa del Seicento, pubblicato da Francesco Garofalo (Ragusa, Erea editrice,1980). Leggendo le paginette che costui gli dedica, siamo innanzitutto informati del castello. Dettagliata la descrizione che, con le tonalità del fantastico, lo presenta munito di tre porte e di una quarta detta ferrea utilizzata per l’accesso, situandolo poco distante dalla via principale: verso il centro della città e sulla parte più alta di essa.

         Ecco un accenno: Ha all’interno quattro fortissime e altissime torri, le quali tutte sono abitate, e tra l’una e l’altra vi sono mura fortissime e altissime; sopra di esse sono i merli e delle palle rotonde di pietra viva, delle quali a stento un uomo fortissimo potrebbe sollevarne una, e dalla parte di dentro sopra le dette mura si cammina comodamente per la difesa del Castello… Dopo la quarta porta, detta  “ferrea”, esisteva un porticato attraverso il quale si entra in un cortile, ed in esso è un magnifico palazzo, nel quale abitarono i Chiaramonte, Conti di Ragusa, il qual palazzo viene ora chiamato “lo palazzo dilli Chiaramunti”.

        Il palazzo nel castello, dunque. Ed era la fortificazione in un sito di dominio della città tale da consentire una poderosa difesa dagli attacchi esterni: situato verso il centro della città e sulla parte più alta di essa². D’avviso diverso Leonardo Lauretta che, contraddicendosi, situava il grandioso palazzo nel luogo del Convento di San Francesco: “sino al dì d’oggi ne appaiono le mergoli delle Torri, corridoi di strade sotterranee, piscine, bivieri, conducendovi le acque della Cava di  Velardo… “. E’ stato Filippo Rotolo nell’opera La chiesa di S. Francesco all’Immacolata (1990) a fornire una convincente chiave di lettura, mostrando tanta destrezza nel maneggiare l’argomento. Escludendo che la torre annessa al Convento dei Francescani fosse stata di stile chiaramontano, ha ritenuto che dovette essere dell’antica chiesa di San Francesco, all’origine facente un tutt’uno con la facciata di cui si conserva il portale anteriore alla venuta dei Chiaramonte. Sull’ubicazione del palazzo, lo studioso condivide le notazioni del Garofalo e gli sembra probabile che sia stato edificato da Manfredi I Chiaramonte.

        Nel 1447 contro Bernardo Giovanni, successore di Bernardo Cabrera, insorsero i ragusani contro le angherie feudali, vittime poi di una dura repressione: con la rivolta si ebbe l’incendio dell’archivio del castello che portò alla distruzione della documentazione sulla Ragusa antica e medievale. E fu ucciso, scrive  Solarino, il suo figliastro insieme ad alcuni alabardieri. Da allora, il contado, che la città deteneva dal 1060, venne trasferito a Modica.

        Comincia da qui la decadenza del castello, cui via via si unirono altri fattori quali per esempio la minore navigabilità dell’Irminio per la riduzione della portata d’acqua e l’invenzione delle armi da fuoco. Soprattutto il terremoto del 1693 portò a compimento la demolizione, lasciando in piedi il maschio castellizio, denominato “Castello vecchio”, adibito poi a prigione. Singolarmente suggestiva questa testimonianza: un quadro del Cinquecento raffigurante la Natività, che si trova conservato nella chiesa dei Cappuccini a Ibla,  raffigura il castello in cima al colle alle spalle della Madonna, mentre i quartieri contadini stanno fuori della città murata (verso occidente le falde del colle risultano disabitate); alcune foto del 1908 riprendono resti consistenti delle strutture murarie prima di essere demolite per far posto alla costruzione di un edificio imponente, riadattato a lavori ultimati nel 1930 per essere utilizzato a sede del Distretto Militare.

Federico Guastella

Ragusa, 11 agosto 2024

Il presente articolo è tratto dal volume: “Il miele dolceamaro degli Iblei”, di Federico Guastella, ed. Bonanno, 2024.

Note:

  1. Ristampa Libreria Paolino Editore, Ragusa, 1988;
  2. Oltre alla minuziosa descrizione, un disegno mostra l’antichissimo e inespugnabile castello (Castrum Ragusiae), la cui riproduzione fotografica è di Giuseppe Leone.

 

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