La riforma scolastica di Giovanni Gentile
La riforma scolastica di Giovanni Gentile
di Giuseppe Tumino
La riforma scolastica del 1923, che porta la firma di Giovanni Gentile, ma a cui collaborarono pure Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola, Ugo Spirito ed altri, fu un grandioso tentativo di realizzare una vera unità nazionale attraverso l’educazione. Gentile voleva dare concretezza al carattere pedagogico del suo pensiero filosofico ed incontrava l’esigenza del primo Fascismo di ordinare, ma contemporaneamente di sottoporre a controllo, il mondo dell’educazione. I presupposti della riforma si basavano sulla ripresa dei valori risorgimentali, sulla concezione della scuola come formazione della classe dirigente e sul progetto di una riforma scolastica come parte di una più ampia riforma morale degli italiani.
Già nelle lezioni di filosofia dell’educazione, tenute nel 1919 ai maestri di Trieste, Gentile aveva presentato in modo sintetico il suo ideale pedagogico espresso in modo ampio e sistematico nei due volumi del Sommario di pedagogia come scienza filosofica del 1913-14, dove poneva come centro del processo educativo non l’educatore, ma l’educando. Come dice Sergio Romano, Gentile era convinto che insegnare significasse anzitutto insegnare filosofia. Non certo la filosofia conclusa che si trova nei testi di un autore, ma la vita del pensiero che si sviluppa verso forme sempre più elevate di autocoscienza. Il rapporto tra le due soggettività dell’educatore e dell’educando veniva visto come la relazione di una superiore sintesi spirituale. Il discente interiorizza la coazione esterna del docente e vi aderisce liberamente perché, come diceva Sant’Agostino, il vero maestro non è fuori, ma è dentro di noi.
Si risolveva così “l’antinomia fondamentale dell’educazione”, ossia il rapporto tra autorità e libertà, perché l’unità spirituale dell’educazione fa scomparire la dualità se l’educando fa propria la parola dell’educatore e l’educatore fa proprie le attese dell’ educando. Sul piano didattico, Gentile aveva sempre negato il valore di un metodo che sia separato dalla materia che s’insegna e aveva ridimensionato l’importanza dei programmi (non il programma fa il maestro, ma il maestro fa il programma). Nella riforma, infatti, i programmi indicavano solo i punti di arrivo, da verificare con l’introduzione dell’esame di Stato, lasciando liberi sul modo di arrivarci, nel rispetto della libertà (e della responsabilità) attribuita ai docenti. Gentile dirà poi che l’istruzione superiore, proprio perché tale, non può essere di tutti e lo Stato deve sì aprire una porta verso l’alta cultura, ma piuttosto stretta che larga, perché non vi precipiti dentro una folla.
Si respingevano le pratiche didattiche del tempo, basate sulla memorizzazione, la ripetizione e l’imitazione, si sollecitava il contatto diretto con le opere degli autori da studiare, ridimensionando i manuali, perché il vero compito della scuola non è quello di trasmettere il sapere, ma di promuoverlo, suscitando l’interesse culturale più che moltiplicando le nozioni. Purtroppo proprio gli aspetti più seri della riforma non saranno mai pienamente attuati per le successive modifiche subite che ne snatureranno lo spirito.
Si trattava comunque di una visione aristocratica della società dalla quale discendevano una concezione aristocratica della cultura e una struttura gerarchica della scuola, visione che esprimeva un conservatorismo politico contro il liberalismo borghese e contro il socialismo. Per ciò che concerne gli aspetti organizzativi, Gentile aumentò i poteri del Ministero rispetto agli organismi locali. I Provveditorati non furono più provinciali ma regionali, e furono pure aumentati i poteri dei presidi che diventarono veri e propri “presidi-duci” ridimensionando il ruolo del Collegio dei docenti. Emergeva in questo modo la contraddizione di fondo di tutta la riforma gentiliana: sostenere la libertà didattica attraverso strutture autoritarie.
La scuola gentiliana presentava una struttura ad imbuto: una basa larga e un vertice ristretto. Iniziava dagli asili per i bambini da tre ai sei anni e da due cicli di scuola elementare. Si continuava con una una scuola complementare triennale per chi intendeva avviarsi al lavoro, mentre per chi proseguiva, furono istituiti il liceo scientifico quadriennale, un liceo femminile, che fu un fallimento perché non offriva sbocchi, e l’istituto magistrale di sette anni. Ma gli sforzi maggiori di Gentile furono rivolti al liceo classico, riportato al centro della scuola italiana come scuola delle élites, che realizzava la vera cultura attraverso l’asse portante del latino, del greco e della filosofia. Per quanto riguarda i contenuti dell’insegnamento, la preminenza veniva accordata alle discipline umanistiche, con grandi spazi concessi al latino e alla filosofia, considerate le uniche materie che alzano il livello degli studi. La fisica fu abbinata alla matematica, con scarsa considerazione degli aspetti sperimentali, la storia, svincolata dalla geografia e dall’economia, fu abbinata alla filosofia. Questi abbinamenti, effettuati anche per motivi di risparmio, anche se risultano artificiosi, sono sopravvissuti fino ai nostri giorni.
In una intervista al Corriere della Sera nel 1929, anno cruciale per molti altri motivi, Gentile tira le somme della sua riforma introdotta sei anni prima: ne giustifica le scelte e riconosce che affondava le radici nella precedente legge Casati di cui recuperava gli aspetti migliori. Ma nello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione diventava Ministero dell’Educazione Nazionale, gli insegnanti erano già raccolti nell’unica Associazione Fascista della Scuola e i professori universitari saranno poi obbligati al giuramento di fedeltà al regime.
La scuola diventò così uno strumento di manipolazione sociale, fu introdotto il testo unico per le elementari e si arrivò persino all’insegnamento della mistica fascista, tutti aspetti che facevano ritenere troppo astratta la pedagogia gentiliana. E lo stesso Mussolini, che aveva indicato la riforma gentiliana come la più fascista delle riforme, negli anni trenta finì per denunciarne l’inadeguatezza rispetto alle esigenze totalitarie della società fascista; ma del resto, già a partire dal 1925, Gentile aveva preferito dedicarsi alla rivitalizzazione della cultura italiana attraverso la grande produzione dell’Enciclopedia Italiana, la famosa Treccani.
Pertanto la vera e propria riforma scolastica fascista, dopo una prima “bonifica” di De Vecchi, sarà realizzata da Giuseppe Bottai nel 1936 con la “Carta della Scuola”, modellata sulla “Carta del Lavoro”, che introdusse una piena fascistizzazione della scuola, alla ricerca del consenso delle masse. Gentile, tuttavia, non rinnegò mai il Fascismo e lo seguì anche nell’avventura della Repubblica Sociale, fino al suo personale dramma finale, quando venne assassinato nel 1944 a Firenze dai partigiani comunisti.
Come ha detto Giorgio Chiosso, nei confronti di questa riforma scolastica che ha segnato in profondità la storia della scuola italiana, l’indagine storica si è troppo spesso fermata al suo rapporto col fascismo ed ha posto invece scarsa attenzione ai motivi della sua straordinaria longevità. La cultura umanistica ha dimostrato, infatti, una tenuta e una capacità formativa forse oltre le stesse aspettative di Giovanni Gentile.
Le esigenze scolastiche di oggi, ad un secolo di distanza, sono inevitabilmente diverse, ma non si può negare che la riforma del ‘23 sia stata quella più organica di tutta la storia d’Italia, l’unica che abbia proposto una struttura funzionale per tutti i gradi scolastici e abbia cercato di elevare ai livelli più alti le istituzioni culturali.
Giuseppe Tumino
Ragusa, 12 dicembre 2024