Il rapporto fra salute e malattia
è stato da sempre oggetto di ricerca per l’identificazione delle cause da
cui discendono le alterazioni di una funzionalità organica.
La
paleopatologia, cioè la scienza
che studia le antiche malattie dell’essere umano attraverso lo studio
delle strutture ossee dei resti antropologici e dei corpi mummificati,
offre senz’altro un vasto campo di ricerca. Emergono numerosi
interrogativi alcuni dei quali trovano una risposta strettamente correlata
con argomentazioni di carattere storico: qualità della vita nelle
popolazioni antiche, incidenza delle malattie e relativa patogenesi.
Lo studio paleopatologico di alcune mummie
rinascimentali ha permesso di effettuare delle diagnosi sulla “causa
mortis”. Emerge un quadro clinico molto interessante e, per certi versi,
inaspettato.
In talune chiese e
conventi, per l’antico uso di inumare i cadaveri in appositi locali, si
procedeva alla mummificazione: un processo di essiccamento per il quale,
venendo a mancare per evaporazione il grado di umidità necessaria alla
moltiplicazione di microrganismi e fermenti saprogeni, si otteneva il
prosciugamento senza putrefazione del cadavere. La mummificazione può
avvenire naturalmente, cioè spontaneamente, o artificialmente mediante
l’impiego di sostanze chimiche. La comunità
di frati cappuccini, allocata presso la Chiesa di S. Maria della Grazia in
Comiso (Ragusa), adoperava il metodo naturale. Si tratta di soggetti
mummificati la cui data del decesso rientra in un arco temporale che va
dal 1742 al 1838 (se ne contano 50 - tra frati e laici appartenenti al
Terzo Ordine dei Cappuccini - con lo sguardo rivolto verso l’interno della
chiesa e collocate in nicchie).
Una delle mummie,
ancora ben conservata, riposta nella camera mortuaria annessa alla
struttura chiesastica, alcuni anni fa ispezionata da esperti di
paleopatologia (le analisi con tecnologie biomediche sono state pubblicate
su “American
Journal of Physical Anthropology” nell’aprile 1999 da Castagna, Ciranni e
Fornaciari col titolo “Goiter in an eighteenth-century Sicilian mummy”),
ha permesso uno studio abbastanza dettagliato sulle affezioni sofferte
dall’individuo che è colà vissuto intorno il XVIII secolo. Si tratta di un
soggetto dell’età apparente di 35 anni caratterizzato da una estesa
tumefazione nella regione anteriore del collo in area tiroidea. L’esame
istologico dei tessuti ha confermato la presenza di un gozzo tiroideo il
cui volume, abbastanza esteso, avrebbe provocato una complessa
sintomatologia dall’esito infausto per il soggetto ammalato. Il gozzo è da
considerarsi una malattia molto antica. Una dettagliata descrizione del
quadro clinico è riportata in “De Architectura” da Vitruvio intorno il 24
a. C.. Nel XIII secolo, la malattia viene descritta come “bocium sit in
gula… habitantibus… montes” in “Compendium Medicinae” di Gilberto Anglico.
Le
osservazioni dei paleopatologi su altre mummie rinascimentali, ritrovate
nell’ambito di un territorio collocato nel meridione d’Italia (dalla corte
Aragonese di Napoli a quella di Sicilia), hanno consentito di effettuare
una dislocazione territoriale delle malattie e loro eziologia. Le ricerche
sui regimi alimentari, correlate agli esami bio-chimici e molecolari cui
sono state sottoposte le mummie, hanno indicato una massiccia assunzione
di zuccheri, grassi e carne rossa che spiega la presenza di disturbi
metabolici, obesità, arteriosclerosi, calcoli biliari e urolitìasi
(calcolosi delle vie urinarie) molto spesso presenti nella classe
nobiliare dell’epoca.
Giuseppe Nativo
Mummia del XVIII secolo (Comiso)
Nota dell'editore: il presente
articolo è stato pubblicato anche sul quotidiano “La Sicilia” del
1°.2.2007, nella rubrica “Cultura e Spettacoli”, con il titolo “Gli esami
paleopatologici su una mummia di Comiso. Quando si moriva per il gozzo".