Ciò che balza subito agli occhi sin dalle prime
pagine è la preziosità della documentazione che indubbiamente gioca una
parte importantissima nel rendere alte ed originali le indicazioni date da
Trainito. Il rigore scientifico è estremo, puntiglioso, e le sue valutazioni
si spostano sempre più verso prospettive etico-esistenziali. Egli, oltre a
spiegare il titolo del suo saggio (lo riferisce alla raccolta di poesie
intitolata Codice Siciliano, che Stefano D’Arrigo aveva pubblicato
intorno alla metà degli anni Cinquanta, cogliendo temi che vanno dalla
metafora del mito alla fisionomia d’una Sicilia tradita), si sofferma ad
illustrare accuratamente la genesi del romanzo (dapprima edito nel 1975
dalla casa editrice Mondadori, dopo quasi quindici anni di instancabile
fatica da parte dell’autore, preso dalla sua ossessione di correggere fin
quasi all’esaurimento fisico e mentale, e ristampato poi nel 2003 dalla
Rizzoli a cura di Walter Pedullà). Horcynus Orca, dunque: opera a
tutt’oggi quasi ignorata (persino in Sicilia), probabilmente per la
difficoltà linguistica e per la sua mole (dalle iniziali cento pagine de
I giorni della Fera, spia di un work in progress, alle oltre
milleduecento di Horcynus). Al suo apparire, i consensi furono più
numerosi dei dissensi, e il nostro studioso, riportando i pareri favorevoli
espressi da Lorenzo Mondo (con D’Arrigo “la letteratura assume il valore di
un’esperienza assoluta, totalizzante”), di Geno Pampaloni (che parla di un
capolavoro “grandioso, sofferto, solenne, disperato), di Giuliano Gramigna
(che esalta nell’opera “il lungo viaggio fra mito e romanzo”), si sofferma a
puntualizzare il contributo di Walter Pedullà, pronto a combattere
“appassionatamente le stroncature affrettate” e a difendere la “leggenda”,
nonché l’ “impresa memorabile di D’Arrigo”.
L’indagine svolta nel capitolo 2 verte sulla
“fabula” e sull’ “intreccio”. Il sommario è condotto in modo abbastanza
chiaro e piacevole, dettagliato e rispettoso della cronologia dei fatti.
Ora, data l’impossibilità di evidenziarli nella loro interezza, potrò appena
passare in rassegna alcuni itinerari narrativi, ritenuti, spero, sufficienti
a presentare il saggio secondo le intenzioni dell’autore che si muovono in
direzione di precise strutture conoscitive: quelle dell’identità di una
comunità, di una cultura, di un ethos.
a) - L’orca
Nell’ambito di un visionarismo simbolico è lo
scenario marino a fare sentire l’angoscia di una morte cruda e feroce, tutta
compendiata nell’immagine d’un mostro apocalittico che appare “poco oltre
l’inizio della seconda metà dell’opera”: Era l’Orca, quella che dà la
morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire
la Morte in una parola…; ferone, invece, come viene intesa nei mari intorno
alla Sicilia, per il fatto curioso, misteriosissimo di avere in comune con
la fera la coda…. I termini che stanno ad indicarla mutano nel corso del
romanzo, e su di essi nel capitolo 4 (“genealogia culturale e simbolismo
dell’Orca”) si sofferma Trainito. Avvalendosi dello studio di Walter Pedullà
e di un suggestivo percorso intertestuale (per citare alcune fonti: Plinio
il Vecchio e Virgilio, I miti ebraici di Robert Graves e Raphael
Patai, la cultura ebraico-cristiana e Melville), egli vede nella “grossa
fera”, che spietatamente distrugge barche e divora uomini e pesci, il
simbolo Dominio violento, del Tiranno, del Minotauro, del Leviatano (il
mitico mostro di Giobbe), del drago che esige tributi. E il mare, nel solco
della tradizione verghiana, viene così riproposto come “principio e fine di
tutte le cose”, anche perché reca i segni delittuosi della guerra, quella
del secondo conflitto mondiale.
b) - Il nostos
Da questa analisi si ricava un senso di estrema
sofferenza e desolazione, intanto che gli avvenimenti, nell’arco di otto
giorni, si snodano attorno a ‘Ndria Cambria, “nocchiero semplice della fu
regia marina”. In sintesi, costui, nel viaggio di ritorno a casa da Napoli,
dopo un mese dall’armistizio Badoglio, si ritrova, dopo aver superato
innumerevoli peripezie, lungo il territorio della costa calabra, fra il
Tirreno e lo Jonio (i mari dello Stretto, cioè dello “scill’ e cariddi”),
nel “paese delle Femmine” (Bagnara), dove gli abitanti conducono una dura
esistenza. Qui vivono strani personaggi, tra cui le “femminote”, le
contrabbandiere di sale, invase da una sensualità e sessualità primitive e
radicali, il cui racconto corale fa del mare il simbolo della sopravvivenza.
La tematica erotica in ogni sua manifestazione, che avrebbe meritato una
chiarificazione più esplicita, è largamente presente nel romanzo
(omosessualità, onanismo, incesto) sia pure in modo mimetizzato. Per cui
sarà una delle femminote, la misteriosa Ciccina Circé, con cui poi si
accoppierà sulla spiaggia per “disobbligo”, a portarlo, di notte, sulla sua
barca a Cariddi, dove finalmente ‘Ndria può ricongiungersi col padre
Caitanello.
c) - La morte
Si sfata, nel frattempo, il mito dell’immortalità
dell’Orca marina, dilaniata dai delfini (le “fere”) che, scodandola, la
uccidono. Così essa muore, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere
una divinità benigna apportatrice di “manna” (i banchi di “cicirella”,
cioè anguille appena nate, sollevate in superficie in conseguenza dei suoi
inabissamenti) . La bestia feroce verrà smembrata e svenduta al
mercato del pesce; con le sue ossa e la pelle i pellisquadre faranno poi
strumenti domestici, necessari alla quotidianità. Con la sua uccisione si
conclude tragicamente il viaggio di ‘Ndria Cambria. Riuscito ad attraversare
lo stretto per raggiungere Messina su invito del futuro suocero, decide con
l’amico d’infanzia Masino a partecipare ad una regata (lo scopo è di trovare
il denaro con cui comprare la barca, detta “palamitara”, indispensabile ai
pescatori di Cariddi, data l’economia basata sulla pesca), ma durante
l’allenamento sulla lancia a loro riservata muore casualmente e banalmente,
da anti-eroe potrei dire, colpito da un proiettile sparato alla cieca (la
morte in fondo colpisce come in un agguato insensato!) dalla sentinella di
una portaerei, insospettitasi d’averli visti spingersi troppo sotto le navi.
Sembra proprio il compimento d’un destino: quando la pallottola lo colpisce
in mezzo agli occhi, ‘Ndria alza lo sguardo come se volesse intercettarla
“volontariamente”. Così il cerchio si chiude quando giunge il momento, e
non manca in tutto questo il senso dell’atto sacrificale: quella barca,
‘rubata’ dopo da Masino e dagli ‘sbarbatelli’, diventa bara per lui:
“forse” – scrive Trainito – “sarà la vera arca di salvezza per i
cariddoti ridotti a banchettare con l’Orca”.
E’ chiaro: tutto nell’Horcynus sembra
svolgersi in funzione della morte e la narrazione sembra restituire
un’odissea senza salvezza “in un mare di lagrime”, “disfatto a ogni colpo di
remo”. Il nostos s’apre infatti alla “ripartenza” verso la morte,
diversamente dal viaggio d’Ulisse, il cui destino si conclude favorevolmente
nell’approdo ad Itaca. Da questo punto di vista, sostiene il critico,
Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe,
esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il
mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo
di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano
le guerre, le fere…. Il mostro – egli aggiunge – fa pensare non soltanto
all’uomo, il quale ha inventato armi ben più micidiali delle corna di un
Behemoth, ma anche alla sua alleanza con l’Orca, entrambi accomunati da un
medesimo destino di distruzione. Tuttavia, un’altra chiave di lettura
potrebbe portare altrove. L’interpretazione messianica, suggerita a più
riprese dallo stesso D’Arrigo, induce ad un parallelismo tra ‘Ndria,
eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto
destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la
rinnovata comunione con Dio (…). E il romanzo si chiude con il quadro
messianico-escatologico di lui morto nella sua barca-bara portata come
un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il
banchetto (…) attorno al corpo dell’Orca. E’ lo stesso Trainito a dire
che nel romanzo è “trasparente” “l’allusione cristologia” secondo lo schema
del Dio-uomo che muore e risorge. A prevalere, nel mito della morte come
vera vita senza presupposti dogmatici o fedi trascendenti (p.146), è la
pietas che dà senso all’enigmaticità della storia offesa da ogni sorta
di sopraffazione.
La sintesi delle vicende principali si conclude
infine con un giudizio ben calibrato che vale la pena di riportare, perché
fa toccare con mano la poliedricità delle nervature microstoriche ruotanti
attorno alla semplicità della fabula: …e la corrente della
narrazione principale si spezza e rallenta producendo correnti secondarie
costituite dai “ritorni” del narratore, dalle digressioni e dalle
rievocazioni del passato da parte dei vari personaggi, ai quali spesso, in
un uso calcolatissimo e abbondante del discorso indiretto libero, il
narratore cede la parola. E peraltro questa realtà stilistica si nutre
sia dell’ampiezza del discorso diretto e di quello indiretto sia della
lunghezza dei periodi che si snodano in una trama articolatissima di
frasi incidentali e subordinate incassate l’una dentro l’altra.
Oltre a tutto questo, la novità e l’originalità
di Horcynus Orca – annota Trainito nell’incipit del Capitolo 3
(rilevanti qui i raffronti tra la lingua di D’Arrigo e quella di Camilleri)
– stanno, com’è noto, nella sua particolarissima tessitura linguistica,
perché D’Arrigo ha letteralmente inventato una nuova lingua. Sicché, il
nostro studioso, rivelandosi profondo conoscitore di dialettologia e
linguistica, può agevolmente scrivere che, nell’ambito del rinnovamento del
codice narrativo, l’operazione linguistico-espressiva mira a un
potenziamento inaudito della lingua italiana con l’uso, ad esempio, di
termini dialettali italianizzati e neologismi di grande carica
espressiva, tale da generare la sensazione di leggere un testo dei
poesia o di prosa d’arte d’altri tempi. Iper-lingua, dunque,
quella dello scrittore messinese, costruita da innesti dialettali, tipici
del parlato comune, sull’italiano (quelli veicolati dall’arcaicità e
concretezza d’una cultura che spesso ribalta la luce nel lutto del caos
o dalla saggezza popolare condensata nei proverbi, nelle similitudini, negli
aforismi).
Nella seconda parte del saggio, preceduta da un
Prologo dove Trainito dice di avvalersi del metodo laico in base
al quale, in ossequio all’esercizio della libertà di pensiero, non si
riconoscono rivelazioni divine e dogmi religiosi, viene affrontato il
discorso sul secondo ed ultimo romanzo di D’Arrigo: Cima delle nobildonne,
pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1985 e nel 2006 da Rizzoli, a
cura di Walter Pedullà. Il titolo, che ci riporta all’antico Egitto dato il
riferimento all’unica donna Faraone chiamata Hatshepsut (“Colei che
va davanti alle nobili”, cioè “sinonimo enfatizzato della placenta”), è già
significativo d’una particolare attrazione dello scrittore per quella
medesima cultura egizia verso la quale, quasi alla fine del Cinquecento,
aveva prestato notevole attenzione Giordano Bruno. Innanzitutto, il critico
evidenzia le differenze strutturali tra i due romanzi darrighiani (ad
esempio: smisurato il primo, contenuto il secondo; radici dialettali sulla
morfologia dell’italiano in Horcynus, termini specialistici nella
lucida, piana e scorrevole prosa di Cima delle nobildonne; ambientato
l’uno nella zona dello Stretto di Messina, localizzato l’altro nell’estremo
nord dell’Europa, a Stoccolma). Anche per questo secondo romanzo, definito
uno dei più straordinari capolavori della letteratura del XX secolo,
l’opera di decifrazione si avvale d’una scrittura estremamente colta lungo
un tracciato variegato e complesso. Tra le diverse piste di ricerca,
individuate nell’avvincente simbolismo numerico, nella mitologia e
nell’antropologia culturale, nonché nell’immaginario alchemico connotato dal
motivo dell’androginia, quella fondamentale, verso cui tutte convergono, ha
una riferimento ben preciso: la presenza di Pitagora.
Il filosofo della scuola italica, stando alle fonti
accuratamente utilizzate, aveva, infatti, assunto come cardine della sua
dottrina la metempsicosi e la metamorfosi. Sicché, Trainito
può affermare che Cima delle nobildonne è tutto un grande gioco di
reincarnazioni e metamorfosi, al punto che ognuno dei personaggi principali
è la ricapitolazione di ogni passato culturale, la ‘complicazione’ (…)
di tutte le radici storiche in una identità sempre aperta e plurima.
Anche per quest’opera, il viaggio intertestuale non finisce di sorprendere
per la varietà e ampiezza di accostamenti, come, ad esempio, nel sentirsi
coinvolti leggendo le pagine in cui (come per Pinocchio di Collodi o l’
“asino” Lucio di Apuleio), viene ipotizzato un percorso iniziatico, tanto
privilegiato dai culti egizi. E in merito non si può non apprezzare la
raffinata sensibilità con la quale il critico si accosta a valenze cognitive
tipiche d’una sacralità appartenente a diverse culture.
L’epilogo del saggio, in conformità col metodo
laico già assunto, ha comunque uno spessore ideologico-culturale che non
lascia spazio al bisogno dell’oltre e dell’altrove: Poiché di tempo siamo
fatti, di divenire siamo intessuti, agli accidenti siamo destinati. In
effetti, a trionfare resta esclusivamente “la discesa agli inferi” e manca
la risalita che avrebbe potuto condurre alla ricerca gnostica della
ineffabile luce.
Sicché, Trainito può concludere il suo avvincente
itinerario ermeneutico citando le parole di Fernando Gioviale (Crepuscolo
degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate, Siracusa,
Lombardi, Editori 2004), in cui esplicitamente dichiara di riconoscersi:
…Si tratta (…) di un’escatologia tutta immanente alle cose umane,
letteralmente atea (…), dove Dio può apparire per incarnazioni e
spostamenti, secondo panteistica o epifanica necessità: per questa via si
può pensare (…) a Moby Dick, ma più forse al film di John Huston, nel suo
tenace individualismo scettico (Achab come versione moderna del dantesco
Capanèo?), che non all’irraggiungibile romance di un Melville radicato nel
biblico fondamentalismo nordamericano”.
Come per dire: un mondo che assume la caducità
della vita avvolta in un crudele labirinto, dove l’origine coincide con la
fine; tutt’al più, nel contesto dell’orfismo, non c’è la definitiva caduta
nel nulla, ma il ritorno della vita sotto altra forma secondo un ciclo di
necessità che dà luogo in ognuno di noi alla memoria ancestrale, filogenesi
di ogni passato culturale in una identità aperta e plurima.
Federico Guastella
Maggio 2010