saggistica

Su l'angolo della poesia l'angolo della filosofia saggistica

 

 

 

Stefano D'Arrigo

 

Trainito legge D'Arrigo

 di Federico Guastella

 

      Il libro di Marco Trainito Il codice d’Arrigo (Anordest, Villorba, 2010, pp.159) riprende con alcune modifiche e aggiunte i motivi trattati ne Il mare immane del male. Saggio su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, pubblicato per la prima volta nel 2004 dalla casa editrice Cerro Edizioni di Gela. E’ lo stesso autore, in prefazione, ad esplicitare i motivi che hanno determinato in lui il bisogno della nuova edizione, la cui copertina è impreziosita dalla riproduzione della tavola di Pieter Bruegel il Vecchio, raffigurante il Trionfo della Morte, uno scenario apocalittico senza speranza e redenzione che lascia presagire i nuclei tematici sviluppati.

Il saggio, dedicato al padre Emanuele, che dopo l’8 settembre da sbandato percorse a piedi l’Italia da Conegliano Veneto fino a Gela, essa, egli dice nella Prefazione, contiene ora, infatti, anche un testo sul secondo e ultimo romanzo dello scrittore di Alì Terme, intitolato Cima delle nobildonne, da lui letto a un convegno sulla laicità e sulle radici culturali dell’Occidente – tenutosi a Piombino il 28 aprile 2006 – cui era stato invitato a partecipare insieme al filosofo Giulio Giorello.

Perché leggere e scrivere su D’Arrigo (Alì Marina, Messina, 1919 – Roma, 1992), oggi? Sintetizzando alcune delle risposte date dallo studioso nella “Premessa”, si capisce subito che ha agito nel suo animo il senso d’appartenenza all’humus storico, antropologico, linguistico e topografico comune ad entrambi. L’altra ragione gli è stata dettata da un obiettivo prevalentemente diffusivo-conoscitivo: quello di agevolare il lettore, ignaro dell’opera, fornendogli “una sorta di diario di viaggio”, funzionale all’ “emozione della ricerca” e allo “stupore della scoperta”.

Marco Trainito

Ciò che balza subito agli occhi sin dalle prime pagine è la preziosità della documentazione che indubbiamente gioca una parte importantissima nel rendere alte ed originali le indicazioni date da Trainito. Il rigore scientifico è estremo, puntiglioso, e le sue valutazioni si spostano sempre più verso prospettive etico-esistenziali. Egli, oltre a spiegare il titolo del suo saggio (lo riferisce alla raccolta di poesie intitolata Codice Siciliano, che Stefano D’Arrigo aveva pubblicato intorno alla metà degli anni Cinquanta, cogliendo temi che vanno dalla metafora del mito alla fisionomia d’una Sicilia tradita), si sofferma ad illustrare accuratamente la genesi del romanzo (dapprima edito nel 1975 dalla casa editrice Mondadori, dopo quasi quindici anni di instancabile fatica da parte dell’autore, preso dalla sua ossessione di correggere fin quasi all’esaurimento fisico e mentale, e ristampato poi nel 2003 dalla Rizzoli a cura di Walter Pedullà). Horcynus Orca, dunque: opera a tutt’oggi quasi ignorata (persino in Sicilia), probabilmente per la difficoltà linguistica e per la sua mole (dalle iniziali cento pagine de I giorni della Fera, spia di un work in progress, alle oltre milleduecento di Horcynus). Al suo apparire, i consensi furono più numerosi dei dissensi, e il nostro studioso, riportando i pareri favorevoli espressi da Lorenzo Mondo (con D’Arrigo “la letteratura assume il valore di un’esperienza assoluta, totalizzante”), di Geno Pampaloni (che parla di un capolavoro “grandioso, sofferto, solenne, disperato), di Giuliano Gramigna (che esalta nell’opera “il lungo viaggio fra mito e romanzo”), si sofferma a puntualizzare il contributo di Walter Pedullà, pronto a combattere “appassionatamente le stroncature affrettate” e a difendere la “leggenda”, nonché l’ “impresa memorabile di D’Arrigo”.

L’indagine svolta nel capitolo 2 verte sulla “fabula” e sull’ “intreccio”. Il sommario è condotto in modo abbastanza chiaro e piacevole, dettagliato e rispettoso della cronologia dei fatti. Ora, data l’impossibilità di evidenziarli nella loro interezza, potrò appena passare in rassegna alcuni itinerari narrativi, ritenuti, spero, sufficienti a presentare il saggio secondo le intenzioni dell’autore che si muovono in direzione di precise strutture conoscitive: quelle dell’identità di una comunità, di una cultura, di un ethos.

a) - L’orca

Nell’ambito di un visionarismo simbolico è lo scenario marino a fare sentire l’angoscia di una morte cruda e feroce, tutta compendiata nell’immagine d’un mostro apocalittico che appare “poco oltre l’inizio della seconda metà dell’opera”: Era l’Orca, quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte in una parola…; ferone, invece, come viene intesa nei mari intorno alla Sicilia, per il fatto curioso, misteriosissimo di avere in comune con la fera la coda…. I termini che stanno ad indicarla mutano nel corso del romanzo, e su di essi nel capitolo 4 (“genealogia culturale e simbolismo dell’Orca”) si sofferma Trainito. Avvalendosi dello studio di Walter Pedullà e di un suggestivo percorso intertestuale (per citare alcune fonti: Plinio il Vecchio e Virgilio, I miti ebraici di Robert Graves e Raphael Patai, la cultura ebraico-cristiana e Melville), egli vede nella “grossa fera”, che spietatamente distrugge barche e divora uomini e pesci, il simbolo Dominio violento, del Tiranno, del Minotauro, del Leviatano (il mitico mostro di Giobbe), del drago che esige tributi. E il mare, nel solco della tradizione verghiana, viene così riproposto come “principio e fine di tutte le cose”, anche perché reca i segni delittuosi della guerra, quella del secondo conflitto mondiale.

b) - Il nostos

Da questa analisi si ricava un senso di estrema sofferenza e desolazione, intanto che gli avvenimenti, nell’arco di otto giorni, si snodano attorno a ‘Ndria Cambria, “nocchiero semplice della fu regia marina”. In sintesi, costui, nel viaggio di ritorno a casa da Napoli, dopo un mese dall’armistizio Badoglio, si ritrova, dopo aver superato innumerevoli peripezie, lungo il territorio della costa calabra, fra il Tirreno e lo Jonio (i mari dello Stretto, cioè dello “scill’ e cariddi”), nel “paese delle Femmine” (Bagnara), dove gli abitanti conducono una dura esistenza. Qui vivono strani personaggi, tra cui le “femminote”, le contrabbandiere di sale, invase da una sensualità e sessualità primitive e radicali, il cui racconto corale fa del mare il simbolo della sopravvivenza. La tematica erotica in ogni sua manifestazione, che avrebbe meritato una chiarificazione più esplicita, è largamente presente nel romanzo (omosessualità, onanismo, incesto) sia pure in modo mimetizzato. Per cui sarà una delle femminote, la misteriosa Ciccina Circé, con cui poi si accoppierà sulla spiaggia per “disobbligo”, a portarlo, di notte, sulla sua barca a Cariddi, dove finalmente ‘Ndria può ricongiungersi col padre Caitanello.

c) - La morte

Si sfata, nel frattempo, il mito dell’immortalità dell’Orca marina, dilaniata dai delfini (le “fere”) che, scodandola, la uccidono. Così essa muore, dopo aver dato l’illusione beffarda di essere una divinità benigna apportatrice di “manna” (i banchi di “cicirella”, cioè anguille appena nate, sollevate in superficie in conseguenza dei suoi inabissamenti) . La bestia feroce verrà smembrata e svenduta al mercato del pesce; con le sue ossa e la pelle i pellisquadre faranno poi strumenti domestici, necessari alla quotidianità. Con la sua uccisione si conclude tragicamente il viaggio di ‘Ndria Cambria. Riuscito ad attraversare lo stretto per raggiungere Messina su invito del futuro suocero, decide con l’amico d’infanzia Masino a partecipare ad una regata (lo scopo è di trovare il denaro con cui comprare la barca, detta “palamitara”, indispensabile ai pescatori di Cariddi, data l’economia basata sulla pesca), ma durante l’allenamento sulla lancia a loro riservata muore casualmente e banalmente, da anti-eroe potrei dire, colpito da un proiettile sparato alla cieca (la morte in fondo colpisce come in un agguato insensato!) dalla sentinella di una portaerei, insospettitasi d’averli visti spingersi troppo sotto le navi. Sembra proprio il compimento d’un destino: quando la pallottola lo colpisce in mezzo agli occhi, ‘Ndria alza lo sguardo come se volesse intercettarla “volontariamente”. Così il cerchio si chiude quando giunge il momento, e non manca in tutto questo il senso dell’atto sacrificale: quella barca, ‘rubata’ dopo da Masino e dagli ‘sbarbatelli’, diventa bara per lui:  “forse” – scrive Trainito – “sarà la vera arca di salvezza per i cariddoti ridotti a banchettare con l’Orca”. 

E’ chiaro: tutto nell’Horcynus sembra svolgersi in funzione della morte e la narrazione sembra restituire un’odissea senza salvezza “in un mare di lagrime”, “disfatto a ogni colpo di remo”. Il nostos s’apre infatti alla “ripartenza” verso la morte, diversamente dal viaggio d’Ulisse, il cui destino si conclude favorevolmente nell’approdo ad Itaca. Da questo punto di vista, sostiene il critico, Horcynus Orca è il romanzo della disperazione, il romanzo di una catastrofe, esistenziale, storica, antropologica e cosmica senza rimedio, in cui il mondo è abbandonato da tutte le divinità celesti ed è lasciato in balia solo di quelle ctonie e dei loro emissari più feroci: i dittatori che scatenano le guerre, le fere…. Il mostro – egli aggiunge – fa pensare non soltanto all’uomo, il quale ha inventato armi ben più micidiali delle corna di un Behemoth, ma anche alla sua alleanza con l’Orca, entrambi accomunati da un medesimo destino di distruzione. Tuttavia, un’altra chiave di lettura potrebbe portare altrove. L’interpretazione messianica, suggerita a più riprese dallo stesso D’Arrigo, induce ad un parallelismo tra ‘Ndria, eroe-messia sacrificale e redentore, e l’Orca, mostro redento e pertanto destinato al pasto totemico con cui la comunità dei ‘giusti’ celebra la rinnovata comunione con Dio (…). E il romanzo si chiude con il quadro messianico-escatologico di lui morto nella sua barca-bara portata come un’arca dell’alleanza ai cariddoti, che nel frattempo stanno consumando il banchetto (…) attorno al corpo dell’Orca. E’ lo stesso Trainito a dire che  nel romanzo è “trasparente” “l’allusione cristologia” secondo lo schema del Dio-uomo che muore e risorge. A prevalere, nel mito della morte come vera vita senza presupposti dogmatici o fedi trascendenti (p.146), è la pietas che dà senso all’enigmaticità della storia offesa da ogni sorta di sopraffazione.

La sintesi delle vicende principali si conclude infine con un giudizio ben calibrato che vale la pena di riportare, perché fa toccare con mano la poliedricità delle nervature microstoriche ruotanti attorno alla semplicità della fabula: …e la corrente della narrazione principale si spezza e rallenta producendo correnti secondarie costituite dai “ritorni” del narratore, dalle digressioni e dalle rievocazioni del passato da parte dei vari personaggi, ai quali spesso, in un uso calcolatissimo e abbondante del discorso indiretto libero, il narratore cede la parola. E peraltro questa realtà stilistica si nutre sia dell’ampiezza del discorso diretto e di quello indiretto sia della lunghezza dei periodi che si snodano in una trama articolatissima di frasi incidentali e subordinate incassate l’una dentro l’altra.

Oltre a tutto questo, la novità e l’originalità di Horcynus Orca – annota Trainito nell’incipit del Capitolo 3 (rilevanti qui i raffronti tra la lingua di D’Arrigo e quella di Camilleri)  – stanno, com’è noto, nella sua particolarissima tessitura linguistica, perché D’Arrigo ha letteralmente inventato una nuova lingua. Sicché, il nostro studioso, rivelandosi profondo conoscitore di dialettologia e linguistica, può agevolmente scrivere che, nell’ambito del rinnovamento del codice narrativo, l’operazione linguistico-espressiva mira a un potenziamento inaudito della lingua italiana con l’uso, ad esempio, di termini dialettali italianizzati e neologismi di grande carica espressiva, tale da generare la sensazione di leggere un testo dei poesia o di prosa d’arte d’altri tempi. Iper-lingua, dunque, quella dello scrittore messinese, costruita da innesti dialettali, tipici del parlato comune, sull’italiano (quelli veicolati dall’arcaicità e concretezza d’una cultura che spesso ribalta la luce nel lutto del caos o dalla saggezza popolare condensata nei proverbi, nelle similitudini, negli aforismi).

Nella seconda parte del saggio, preceduta da un Prologo dove Trainito dice di avvalersi del metodo laico in base al quale, in ossequio all’esercizio della libertà di pensiero, non si riconoscono rivelazioni divine e dogmi religiosi, viene affrontato il discorso sul secondo ed ultimo romanzo di D’Arrigo: Cima delle nobildonne, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1985 e nel 2006 da Rizzoli, a cura di Walter Pedullà. Il titolo, che ci riporta all’antico Egitto dato il riferimento all’unica donna Faraone chiamata Hatshepsut (“Colei che va davanti alle nobili”, cioè “sinonimo enfatizzato della placenta”), è già significativo d’una particolare attrazione dello scrittore per quella medesima cultura egizia verso la quale, quasi alla fine del Cinquecento, aveva prestato notevole attenzione Giordano Bruno. Innanzitutto, il critico evidenzia le differenze strutturali tra i due romanzi darrighiani (ad esempio: smisurato il primo, contenuto il secondo; radici dialettali sulla morfologia dell’italiano in Horcynus, termini specialistici nella lucida, piana e scorrevole prosa di Cima delle nobildonne; ambientato l’uno nella zona dello Stretto di Messina, localizzato l’altro nell’estremo nord dell’Europa, a Stoccolma). Anche per questo secondo romanzo, definito uno dei più straordinari capolavori della letteratura del XX secolo, l’opera di decifrazione si avvale d’una scrittura estremamente colta lungo un tracciato variegato e complesso. Tra le diverse piste di ricerca, individuate nell’avvincente simbolismo numerico, nella mitologia e nell’antropologia culturale, nonché nell’immaginario alchemico connotato dal motivo dell’androginia, quella fondamentale, verso cui tutte convergono, ha una riferimento ben preciso: la presenza di Pitagora.

Il filosofo della scuola italica, stando alle fonti accuratamente utilizzate, aveva, infatti, assunto come cardine della sua dottrina la metempsicosi e la metamorfosi. Sicché, Trainito può affermare che Cima delle nobildonne è tutto un grande gioco di reincarnazioni e metamorfosi, al punto che ognuno dei personaggi principali è la ricapitolazione di ogni passato culturale, la ‘complicazione’ (…) di tutte le radici storiche in una identità sempre aperta e plurima. Anche per quest’opera, il viaggio intertestuale non finisce di sorprendere per la varietà e ampiezza di accostamenti, come, ad esempio, nel sentirsi coinvolti leggendo le pagine in cui (come per Pinocchio di Collodi o l’ “asino” Lucio di Apuleio), viene ipotizzato un percorso iniziatico, tanto privilegiato dai culti egizi. E in merito non si può non apprezzare la raffinata sensibilità con la quale il critico si accosta a valenze cognitive tipiche d’una sacralità appartenente a diverse culture.

L’epilogo del saggio, in conformità col metodo laico già assunto, ha comunque uno spessore ideologico-culturale che non lascia spazio al bisogno dell’oltre e dell’altrove: Poiché di tempo siamo fatti, di divenire siamo intessuti, agli accidenti siamo destinati. In effetti, a trionfare resta esclusivamente “la discesa agli inferi” e manca la risalita che avrebbe potuto condurre alla ricerca gnostica della ineffabile luce.

Sicché, Trainito può concludere il suo avvincente itinerario ermeneutico citando le parole di Fernando Gioviale (Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate, Siracusa, Lombardi, Editori 2004), in cui esplicitamente dichiara di riconoscersi: …Si tratta (…) di un’escatologia tutta immanente alle cose umane, letteralmente atea (…), dove Dio può apparire per incarnazioni e spostamenti, secondo panteistica o epifanica necessità: per questa via si può pensare (…) a Moby Dick, ma più forse al film di John Huston, nel suo tenace individualismo scettico (Achab come versione moderna del dantesco Capanèo?), che non all’irraggiungibile romance di un Melville radicato nel biblico fondamentalismo nordamericano”.

Come per dire: un mondo che assume la caducità della vita avvolta in un crudele labirinto, dove l’origine coincide con la fine; tutt’al più, nel contesto dell’orfismo, non c’è la definitiva caduta nel nulla, ma il ritorno della vita sotto altra forma secondo un ciclo di necessità che dà luogo in ognuno di noi alla memoria ancestrale, filogenesi di ogni passato culturale in una identità aperta e plurima.

Federico Guastella

Maggio 2010

 

 

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Ultimo aggiornamento: 21 giugno 2011