HAI
UNA MAPPA?
(a
proposito di COGNITIVISMO e di COMPLESSITA’)
di Pino Iannello
INTRODUZIONE
AL CONCETTO DI MAPPA
0 - Nel lavoro che segue
si è voluto usare la nozione di mappa
come metafora per pensare la conoscenza.
Pur essendo consapevoli dei limiti cui tale immagine rimanda, si spera che
comunque tale semplificazione possa facilitare la comprensione di ciò che
s’intende per Cognitivismo, e di
alcuni altri fecondi concetti ad esso connessi.
1 - Volendo definire in
sintesi il concetto di educazione, essa viene normalmente intesa
come trasmissione di cultura attraverso un apprendimento di tipo
programmato. L’insegnante che si serve di un’unità
didattica o che utilizza un progetto
educativo, non fa altro che costruire un percorso reputato funzionale e comunque conveniente per la crescita
dello studente. La funzione dell’insegnante quindi è quella di guidare
l’allievo verso il raggiungimento di un obiettivo (il più delle volte
didattico).
Questo tipo di
apprendimento viene chiamato anche apprendimento guidato e di
conseguenza, usando un po' di fantasia, in questo caso l’insegnante
potrebbe essere inteso come una sorta di costruttore di mappe,
cioè come colui che utilizza dei percorsi
e che ha una funzione di guida
nei confronti dello studente.
2 - All’apprendimento
guidato si sovrappone il cosiddetto l’apprendimento non guidato.
Quest’ultimo viene attivato quando l’individuo si trova a far parte di
un contesto molto più complesso
del mondo della scuola, un contesto dove le immagini, i messaggi e gli
stimoli sono prevalentemente casuali e aleatori e dove non esiste un
intervento semplificatore da parte dell’insegnante.
3 - Se si mettono a
raffronto questi due tipi di apprendimento, risulta che:
- l’apprendimento
guidato comporta una sorta di gradualità
di ciò che si apprende, e soprattutto che ciò che si apprende è
sempre previsto in precedenza, in quanto già ampiamente sperimentato.
L’attività di elaborazione dello studente, in questo caso, consiste
nello scegliere tra una gamma molto ristretta di risposte, quella che
meglio corrisponde a un certo stimolo;
- l’apprendimento non
guidato invece, non essendo di tipo programmato, conduce ad un’attività più elaborata della coscienza cognitiva
dell’individuo che, per prendere delle decisioni, o per dare un senso
agli stimoli esterni che riceve in quel momento, deve soprattutto
stabilire delle relazioni tra essi. Connettere i vari stimoli e metterli in
relazione, comporta un tipo di apprendimento
del tutto nuovo basato soprattutto sull’esperienza.
Questo apprendimento è del tutto nuovo anche perché la novità proviene
dal carattere indeterminato degli
stimoli, che giocano ora un ruolo di perturbazione
aleatoria, cioè di imprevisto.
4 - Con un po' di
fantasia, anche nell’apprendimento non guidato, il fatto di stabilire delle relazioni tra
gli stimoli, si potrebbe intendere come un modo diverso di creare mappe
spazio-temporali dell’ambiente circostante, mappe
che però sono ben diverse da quelle comunemente usate dall’insegnante.
Infatti, mentre le mappe
scolastiche non sono altro che semplici rappresentazioni di percorsi già
sperimentati, quest’ultime invece sono il
risultato di una scelta e devono essere quindi intese come un metodo
connettivo per il ritrovamento di vie agibili. Questo secondo tipo di
mappe quindi, non ha la presunzione di spiegare come il mondo è, ma
rivela piuttosto che “... è possibile essere nel modo in cui siamo e
agire nel modo in cui abbiamo agito. Ci rivela che la nostra esperienza è
praticabile” (Varela, La Realtà Inventata, pag. 270).
5 - Mentre nel caso
dell’apprendimento
guidato è l’insegnante che dice ciò che bisogna imparare, nell’apprendimento non guidato è invece l’individuo che,
essendo posto in un contesto ogni volta nuovo, crea i modelli che in seguito egli stesso si condizionerà a riconoscere.
6 - Mentre il primo tipo
di apprendimento è ripetitivo,
il secondo è creativo. Mentre
il primo trasmette cultura, il
secondo la crea.
Il passaggio
dall’apprendimento guidato all’apprendimento non guidato corrisponde
alla crescita dell’individuo che da giovane diventa adulto ed è ciò
che noi comunemente chiamiamo maturazione.
7 - Come sarebbe una
scuola che avesse come compito quello di trasmettere gli strumenti per
preparare l’allievo alla comprensione
del nuovo, cioè dell’imprevisto?
Come sarebbe una scuola
che accettasse l’imprevisto, come
parte coerente ed ineliminabile per l’allievo e per il suo futuro
destino?
Naturalmente non si sta cercando di dire che la
scuola debba in qualche modo far suo l’apprendimento non guidato.
Sarebbe un ridicolo paradosso, un controsenso. La scuola per sua natura è
(e non può essere altrimenti) luogo di apprendimento guidato (impositivo?).
E tuttavia, è proprio dall’interno di questa sua specificità che
potrebbe nascere qualcosa che fosse nuovo e nel contempo coerente con la
sua natura.
8 - Se la scuola è il
luogo dove si costruiscono mappe,
esse però il più delle volte, fuori da quel contesto, sono
inutilizzabili, dato che pretendono di fornire certezze che, prima o poi,
risulteranno false. E’ arduo infatti trovare fuori dalla scuola qualcosa
che vi somigli come modello (per esempio: l’accumulo nozionistico come
indice di maturità).
Ma, come abbiamo detto, esiste
un altro tipo di mappa, una mappa che varrebbe la pena tentare
di far entrare nella nostra scuola.
Cosa porterebbe di nuovo?
Mentre il primo tipo di mappa,
tentando di incanalare lo studente su percorsi già noti e considerando
tutto il resto un’inutile deviazione, ha la funzione di scartare gli
errori, il secondo tipo di mappa invece, avendo riguardo per
l’incertezza insita in ogni percorso, ed essendo consapevole della
contingenza di ogni scelta, avrebbe la funzione (dal punto di vista cognitivo)
di tener conto dell’errore.
Questo
secondo tipo di
mappa infatti, invece di cercare di fornire delle risposte, si
assume esclusivamente la responsabilità delle domande.
Mentre nel primo caso, ciò
che conta è avere a disposizione una mappa per poter seguire un percorso,
nel secondo caso invece, ciò che conta è il perché sono state
scelte proprio quelle connessioni, piuttosto che altre, per costruire una
mappa.
La scommessa, in
definitiva, è di riuscire ad inserire nel mondo della scuola questo
interrogativo.
PENSANDO UNA
MAPPA
OVVERO:
COS’E’ LA COMPLESSITA’
9 - Chiunque si accinga a
pensare a una mappa come
metafora della conoscenza, prima o poi si imbatterà con la nozione di complessità.
Si ritiene utile quindi
stabilirne un profilo che, per quanto appena accennato, possa servire da
sfondo a tutto il discorso.
Fondamentale per una prima
comprensione di cosa si intenda per complessità è definire il
concetto di sistema.
Generalmente quando si
pensa a un sistema, viene in
mente un insieme caratterizzato da un numero sufficientemente grande di
elementi.
Ma, sufficientemente grande per che
cosa?
Una risposta probabile
potrebbe essere: per poterlo definire sistema
complesso.
Tuttavia, non è solo il fatto di
possedere un numero più o meno grande di elementi che rende complesso un sistema;
non è cioè solo una quantità numerica che può definirlo come tale. Ciò
che è rilevante semmai è il fatto che un aumento aritmetico del numero
dei suoi elementi conduce a una crescita di tipo geometrico delle
relazioni tra quegli stessi elementi.
Ma, mentre un aumento
aritmetico degli elementi potrebbe sembrare facilmente controllabile,
grazie a una semplice sommatoria, quando quegli stessi elementi crescono
in proporzione geometrica, essi
non si lasciano più semplicemente assommare, avendo nel frattempo
acquisito una qualità di tipo superiore: possono
cioè essere combinabili tra di loro.
Il
sistema ora non
è più facilmente controllabile, essendo aumentate le relazioni tra i
suoi elementi.
Un sistema si può
considerare complesso, quando è così grande da non poter più
collegare ciascun elemento con ogni altro.
10 - Eppure la
proposizione precedente non può soddisfarci, e ciò per il semplice fatto
che, ogni volta che noi abbiamo a che fare con una quantità relativamente
grande di elementi, magari
sparpagliati in modo casuale su una porzione di spazio, oppure quando
abbiamo a che fare con un insieme di avvenimenti apparentemente slegati
tra di loro, quando cioè non riusciamo a capire che tipo di relazione li
unisca, certamente non diciamo come prima cosa, di avere a che fare con
una “situazione complessa”; diciamo piuttosto che quella situazione è
“confusa”, oppure che è disordinata.
In altre parole, se
volessimo definire un sistema
disordinato, potremmo dire che: un sistema si può considerare
disordinato, quando è così grande da non poter più collegare ciascun
elemento con ogni altro.
Ora, come si vede,
quest’ultima proposizione è uguale a quella che tentava di definire un sistema
complesso, e questo non può andar bene.
Ci deve essere qualcosa che distingue la complessità dal disordine.
Forse sarebbe meglio dire
che: tra i due si considera complesso solo quel sistema che
assume un significato agli occhi di un osservatore.
11 - Cosa vuol dire?
Vuol dire che, quando
vogliamo dare un senso a una situazione non lineare (cioè con connessioni
multiple tra tutti i suoi elementi), quando ci troviamo di fronte a una
situazione disordinata, per prima cosa ci viene naturale cercare di
attuare una sorta di selezione
negli elementi di quel sistema, scegliendo tra essi quelli che
sembrano più significativi al nostro fine, ordinandoli poi in uno dei
tanti possibili modi con cui possono essere messi in relazione.
Prima, quindi, selezioniamo,
poi ricombiniamo gli elementi scelti, a seconda della qualità che
vogliamo farne emergere. In questo modo abbiamo attuato una combinazione
selettiva.
Quest’ultimo termine
mette in evidenza, da una parte la scelta fatta su alcuni elementi
del sistema considerato, e dall’altra la sequenza ordinata degli
elementi scelti, cioè il senso
attribuito a quella connessione. Il senso deriva dal fatto
di avere accostato gli elementi proprio in quel modo, secondo
quell’ordine, e non in un altro (che comunque poteva essere sempre
possibile).
12 - Una combinazione selettiva la si può considerare già una mappa?
Sì, in quanto è un
percorso
reso lineare dalle direttrici di senso da noi scelte.
Il termine lineare, ovviamente, non è da prendere alla lettera (riferendolo
cioè al senso della lunghezza di una retta che congiunge due punti),
vuole piuttosto esprimere l’insieme dei segmenti di connessione di
alcuni punti scelti tra i tanti che compongono un sistema. Tale insieme di
segmenti, è ora riconoscibile come percorso
grazie a quelle connessioni che lo hanno evidenziato rispetto al caos che
gli faceva da sfondo.
13 - Volendo allora
rendere evidente la differenza che sussiste tra l’idea di complessità
e quella di disordine, si diceva (10) che si considera complesso
solo quel sistema che assume un significato agli occhi di un
osservatore.
Con ciò però, non si voleva affermare che in natura esista, da una parte
un mondo complesso e dall’altra uno disordinato, e che di conseguenza il
nostro compito sarebbe quello di discernere tra l’uno e l’altro, di
distinguere cioè tra un sistema che sia governato dal disordine
e un sistema che sia governato dalla complessità.
Spesso usiamo il termine
osservatore per designare qualcuno che sta svolgendo un atto cognitivo
(qualcuno che apprende dall’osservazione del mondo), tuttavia colui a
cui abbiamo dato questo nome non si limita solo ad osservare. Il nostro
non è altro che un termine di comodo. Egli, piuttosto, attua
delle scelte tra gli elementi di un sistema, crea
delle relazioni tra di essi; e
inoltre sempre a lui compete
l’attribuzione del significato da dare a quelle relazioni.
Quelle relazioni quindi non esistono già in
natura, ma sono di produzione dell’osservatore, così come tutte le
connessioni e il loro significato.
Ogni volta che
cerchiamo di raggiungere un obiettivo, ogni volta che costruiamo delle
idee, ogni volta che incontriamo ostacoli lungo il nostro percorso, tutto
ciò non è altro che il nostro modo di concettualizzare l’esperienza,
ed è nostra esclusiva produzione. Inoltre, è anche un altro modo per
definire la complessità.
14 - Tanto maggiori sono
le relazioni che si possono individuare in un sistema, tanto più abbiamo
a che fare con un sistema diversificato. Tanto più riusciamo ad ottenere
una struttura concettuale
significativa all’interno di quelle relazioni, tanto più abbiamo a che
fare con la complessità.
Quando si parla di struttura
concettuale però, non bisogna cadere nell’errore di considerare
proprio quella struttura come l’unica possibile di quel sistema.
In verità possono sussistere centinaia, migliaia di relazioni tra le parti di un
sistema e tutte possono essere ugualmente significative. E’ solo il
limite della nostra capacità cognitiva che riesce a mettere in risalto un
solo percorso alla volta.
Quando si dice che si
considera complesso un sistema che assume un significato agli occhi di un
osservatore, si vuol dire che l’osservatore viene
riconosciuto come corresponsabile della produzione di quel significato.
Tale significato quindi, non è una qualità immanente al sistema
osservato, ma dipende piuttosto da un certo modo di prestare
attenzione da parte dell’osservatore.
Mettere in risalto un
percorso piuttosto che un altro, dipende dalla storia dell’individuo che
osserva, dal suo patrimonio cognitivo e, perché no, anche dal suo senso
comune. Possiamo allora aggiungere un elemento in più alla definizione di
complessità dicendo che: la complessità
non può che essere prodotta da un osservatore.
15 - Quanto detto
precedentemente non deve stupirci più di tanto, soprattutto se impariamo
a fare nostra l’idea che ogni
osservatore fa sempre parte del sistema che osserva.
Cosa vuol dire? Vuol dire
che non esiste un luogo
specifico dove collocare un osservatore. Certamente egli non si
trova fuori dal sistema che osserva, dato che non esiste una vera e
propria linea di distinzione tra lui e il sistema osservato. Piuttosto
egli, osservando, partecipa già a una produzione di relazioni. Anche se
ogni sua interpretazione può essere solo di tipo soggettivo, nello stesso
momento in cui mette in funzione una certa lettura di quel sistema, dà a
ciò che osserva una forma, un significato, cioè, in qualche modo, produce
ciò che osserva.
Ogni interpretazione dà
significato al sistema osservato e contribuisce a produrre un certo
livello di complessità in quello stesso sistema.
Produrre significato è
un’altra condizione della complessità.
16 - Aumentare il
livello di complessità in un sistema vuol dire renderlo più
significativo. Inoltre, la complessità aumenta
proporzionalmente alla crescita del patrimonio cognitivo
dell’osservatore.
Quindi, quando si dice che
la produzione di significato dipende sempre dal sistema osservato
e dall’osservatore, si intende dire che essi si alimentano
reciprocamente e ricorsivamente.
Cosa vuol dire ricorsivamente?
Vuol dire che, da una
parte è l’osservatore che, accrescendo il suo patrimonio
cognitivo, produce significato nel sistema di riferimento, e dall’altra è lo
stesso sistema che, di conseguenza, è diventato ora nuovamente stimolante
agli occhi dell’osservatore; entrambi quindi sono pronti per
ricominciare il ciclo.
Quando si dice che l’osservatore
fa parte del sistema che osserva, s’intende dire che egli si evolve
proporzionalmente alla crescita di significato nel sistema di
riferimento, e di conseguenza che esiste una relazione
dinamica tra le due parti tale da poter affermare che, anche lo stesso
sistema di riferimento è corresponsabile della creazione di complessità.
A tale reciproca
relazione, a tale corresponsabilità, viene dato anche il nome di accoppiamento strutturale (Maturana, Varela).
17 - Si è detto che una combinazione
selettiva (11) è una sorta di percorso
messo in evidenza rispetto ad una situazione caotica che gli fa da sfondo.
A tale percorso abbiamo dato il nome di mappa.
Una mappa serve a rendere significativo un percorso; infatti, quando si
ha a che fare con un sistema caotico (per esempio, una situazione
che a noi appare disordinata), il primo problema che si pone è proprio
quello di riuscire a individuare qualcosa di riconoscibile come mappa per tirarsene fuori. Il primo problema quindi, è saper
distinguere dei confini che
possano identificare un percorso, che possano identificare cioè, un’unità dotata di senso rispetto alla situazione indifferenziata
circostante.
Ma, guardare a un insieme
caotico e indifferenziato, con la speranza di individuarne prima o poi un
percorso significativo, non ha alcun senso ed oltretutto è una perdita di
tempo. Attuare invece una combinazione
selettiva ha già più senso.
Tuttavia, prima o poi
sorge una domanda: in una combinazione
selettiva, in base a
cosa vengono isolate alcune relazioni di un sistema piuttosto che
altre? In base a cosa, cioè, è stata attuata una scelta?
Attenzione, questa domanda non è poi così banale
come potrebbe sembrare a prima vista. Essa, infatti, tiene conto del fatto
che, quando si ha a che fare con una combinazione selettiva, vuol
dire che si sta già seguendo il percorso di una mappa, nel senso
che una mappa già c’è.
Diverso invece è il significato che assume quella stessa domanda se
viene posta nel momento in cui l’osservatore,
pur essendo all’interno di un sistema, non è ancora in grado di riconoscerne i confini, non è ancora in
grado cioè di identificare un percorso. In questo secondo caso una
mappa ancora non c’è e la
domanda, quindi, potrebbe essere: quali sono le condizioni a cui deve
prestare attenzione l’osservatore per essere in grado di attuare una
scelta?
18 - Ogni
sistema
complesso ha bisogno di un suo spazio
in cui rappresentarsi come unità topologica. Senza unità
in qualche spazio, un sistema non è diverso dallo sfondo nel quale
si trova.
Se il sistema considerato
è un sistema vivente, lo spazio di cui ha bisogno non può che
essere uno spazio fisico. Senza unità
in uno spazio fisico, a un sistema vivente mancherebbe tutta quella dinamica
di relazioni che lo costituiscono come un’entità
concreta in quello spazio. Egli ha quindi bisogno di uno spazio
dentro il quale esplicare la sua organizzazione
di sistema vivente.
Abbiamo trovato, dunque,
un’ulteriore definizione di complessità
che suona così: un sistema
complesso è un’unità che si definisce mediante una sua organizzazione interna i cui componenti interagiscono e hanno
relazioni entro i confini dello stesso sistema.
Cosa vuol dire organizzazione?
L’organizzazione in un sistema è rappresentata dall’insieme
di relazioni (storiche e dinamiche) fra le sue componenti.
Le relazioni tra le
componenti costituiscono un’unità.
Tali relazioni, inoltre, non devono
variare, affinché si
mantenga l’identità di quello stesso sistema.
Ma se in ogni
sistema
complesso la sua organizzazione non deve variare, cos’è che allora può variare?
Può variare la struttura di quel sistema.
E cosa vuol dire struttura?
La
struttura in un sistema è rappresentata da quel particolare insieme di componenti e relazioni attuali, cioè limitate nel
tempo, tramite le quali l'organizzazione
del sistema si manifesta in un determinato ambiente.
19 - L’ambiente è il
referente principale per la crescita e lo sviluppo di un sistema vivente.
Per esempio: ammettiamo che in un determinato momento dall’ambiente
provengano delle perturbazioni.
In questo caso l’organizzazione
di quel sistema vivente avrà come compito quello di compensare tali perturbazioni creando al
suo interno tutta una serie di conoscenze atte a mantenere
la sua identità di sistema. La sua struttura
invece subirà un cambiamento, dato che aprendosi all’esterno,
avrà tratto da quella perturbazione, da quello stimolo
ambientale, una sorta di nutrimento energetico che garantirà un nuovo
apprendimento.
Questo è ciò che si
definisce come adattamento
ambientale.
L’OSSERVATORE
20 - Possiamo considerare
un sistema vivente come un osservatore,
con una certa autonomia derivata dal fatto di essere lui l’unico
responsabile del significato attribuito a ciò che osserva. Qualsiasi
tipo di descrizione quindi, appartiene a una cornice di riferimento che è
specifica dell’osservatore.
Anche una mappa allora, non è qualcosa che si rende improvvisamente visibile,
ma è piuttosto qualcosa che
l’osservatore riconosce.
I confini di una mappa non sono altro che la cornice di riferimento
dell’osservatore, cioè il suo contesto. D’altra parte, (parafrasando
Heidegger) il contesto di un
osservatore non può essere altro che il suo essere
in osservazione, quindi i confini di una mappa saranno anche i
limiti, cioè la contingenza di quel determinato tipo di osservazione.
21 - Limiti umani
ovviamente. Di conseguenza, qualsiasi funzione attribuita al sistema
osservato corrisponde alle aspettative, al tipo di lettura e alle risorse
di colui che osserva.
Qualsiasi giudizio relativo a ciò che si osserva risente dei limiti
dell’osservazione e, lungi dal definire una volta per tutte il sistema
osservato, definisce semmai i limiti
dell’osservatore.
Riconoscere i confini di una mappa quindi, vuol dire, da una
parte riconoscere un significato a quel percorso,
ma vuol dire anche che bisogna sempre tener conto della provvisorietà del senso che gli è stato attribuito.
22 – Attenzione: anche
quando si usano termini come sistema
e sottosistema; non bisogna
dimenticare che, così come non esistono confini naturali tra
l’osservatore e il sistema osservato, allo stesso modo non esistono
gerarchie naturali (per esempio, i sottosistemi). I confini e le
gerarchie sono sempre stabilite da un osservatore.
E questo forse è il vero
e unico confine naturale con cui un essere umano ha a che fare.
23 – E a proposito di
confini e gerarchie: anche quando usiamo termini come giudizio
e pregiudizio dobbiamo prestare
attenzione. Per esempio, oggi la scuola fonda la propria legittimità su
una sorta di delirio di onnipotenza, per cui il formatore si sente, in
qualche modo, il depositario di certezze che il più delle volte sono
invece solo pregiudizi. La cosa
è aggravata inoltre dal fatto che si continua a considerare lo studente
come un luogo neutro, come il
probabile futuro portatore dei pregiudizi dell’insegnante.
Ma è vero anche che non
è facile eliminare i pregiudizi.
E d’altra parte, i pregiudizi
sono un fattore importante, anzi portante, della personalità umana.
Essi infatti, al pari della percezione, della sensibilità,
della memoria e dell’esperienza contribuiscono alla
creazione della conoscenza e il più delle volte è difficile
distinguerli da ciò che comunemente si intende per cultura, visto che
fanno parte della stessa sintesi armonica che è la cognizione di una
persona.
24 - E tuttavia: perché
imporre proprio certi pregiudizi
piuttosto che altri? Perché imporre i
propri pregiudizi?
Se i pregiudizi sono
ineliminabili, bisogna imparare a considerarli come matrici costitutive della conoscenza e non, per esempio, come
criteri per giustificare una discriminazione.
Conoscere non vuol dire
solo sapere di più, vuol dire anche avere maggiore consapevolezza di ciò
che non si sa, di ciò che va ancora esplorato; e i pregiudizi
possono in questo senso servire come marcatori
di un confine che è ancora da superare, (grazie, per esempio, ad
ulteriori interrogativi).
25 - Non ha senso
pretendere di porre gli allievi in un fantomatico luogo
neutro, dal quale vedere il mondo come un oggetto inerte da sottoporre
a osservazione. Forse sarebbe più produttivo mettere in relazione i pregiudizi
dell’insegnante, quelli dello studente e il continuo mutare del
contesto.
26 - Il contesto è mobile.
Esso mostra delle direzioni di senso che non sono del tutto
predeterminate, anche se, in qualche modo, possono essere potenzialmente,
ma solo potenzialmente, anticipate da un osservatore attento.
Ed è questo il punto.
Il problema dell’osservatore
oggi appare sempre più decisivo. Il contesto, cioè l’ambiente e il
comportamento, diventano sempre meno nozioni autoevidenti. Sempre meno ci
sono fatti prefissati su cui poter applicare ancora una volta le stesse
regole; inoltre le stesse regole non sempre portano a buone
soluzioni.
Chiunque dia oggi anche un
solo sguardo al contesto in cui vive, non può non sentire il bisogno di
disporre di un metodo che gli renda
possibile comprendere la molteplicità dei punti di vista, di un metodo cioè che gli dia la possibilità di riuscire a passare
da un punto di vista all’altro produttivamente.
Purtroppo però, il più
delle volte, passare da un punto di vista all’altro si riduce
esclusivamente a una ricerca di
problemi che corrispondano alle poche risposte di cui si ha già una
soluzione. Tutto il resto viene scartato.
27 - Non si meravigli
l’insegnante a cui nel prossimo futuro non verrà più richiesta la
soluzione di un problema.
D’ora in avanti il suo ruolo
non sarà tanto legato alla capacità di avere risposte certe e sempre
valide, quanto piuttosto alla possibilità di riuscire
ad organizzare connessioni nuove ogni qualvolta si verifichi un
cambiamento.
Egli deve prima imparare e
poi insegnare a non mutilare, a non censurare l’ambiguità,
l’imprevedibilità, la complessità dei fenomeni.
28 - E’ vero, suona come
una provocazione. Eppure oggi l’insegnante deve riuscire ad essere
sempre più uno smantellatore di
certezze; e deve tuttavia essere anche un creatore
di connessioni, deve cioè riuscire a rendere produttive le tensioni
che man mano si vengono a creare nel
passaggio da una certezza ad un’incertezza, dal vecchio al nuovo.
29 - Al di là di tutte le
riforme, rinnovare la scuola oggi deve voler dire soprattutto impegnarsi
per lo sviluppo di un’intelligenza che dall’essere solo capacità di risolvere un problema, diventi anche capacità
di essere sensibili ai contesti.
Naturalmente la scuola
rimarrà sempre il luogo dove si pongono dei problemi da risolvere. E’
inevitabile e va anche bene. Ciò che semmai bisogna modificare sono le
regole d’uso tutt’ora in funzione.
Pensiamo ai progetti di
sperimentazione: per quanto raffinati e innovativi possano apparire, si
fondano ancora su schemi organizzati in senso rigido. Se i programmi di
tali progetti si dicono attenti, e in realtà prestano una maggiore
attenzione ai mutamenti che avvengono nel campo delle scienze biologiche,
chimiche, fisiche ed umane, tuttavia essi, in fin dei conti, non sono
altro che nuovi modelli atti a fornire nuove risposte.
I nuovi modelli didattici,
per essere veramente sensibili ai mutamenti, dovrebbero tener conto dell’essenziale
imprevedibilità di ciò di ciò a cui si intende dare una risposta.
In base a tale imprevedibilità ogni nuova risposta non sarebbe più
solo un punto di arrivo, ma anche un nuovo punto di partenza. Sarebbe cioè
già una nuova domanda.
IL TEMPO
30 - In che misura
il
tempo partecipa a un processo cognitivo?
Banalità di base: quando
ci si trova a dover selezionare alcuni elementi di un problema, piuttosto
che altri, per trovare una soluzione, il fatto richiede tempo; c’è bisogno cioè di tempo per attualizzare in successione più
relazioni di quanto ne sarebbero possibili contemporaneamente.
Maggiore sarà il tempo che si avrà a disposizione, maggiore sarà la
possibilità di attuare una selezione più articolata tra gli elementi di
quel sistema.
Seconda banalità di base:
da una parte c’é il tempo dell’osservatore, il
tempo dell’orologio,
dall’altra il tempo universale della dinamica, il
tempo costituito dall’accadere
dei fenomeni: Il primo è inserito nel secondo e scorre insieme ad
esso, in una sorta di temporalità
incrociata di tipo multiplo proprio di un universo instabile (Prigogine).
Terza banalità di base:
per l’uomo il tempo può fluire in
una sola direzione; non esiste cioè una direzione che possa essere più
o meno arbitrariamente scelta. Quindi, anche il suo modo di pensare, e di
acquisire elementi significativi per arrivare a delle risposte, non può
che risultare un omologo della dinamica del suo tempo, e perciò
anch’esso di tipo lineare-progressivo.
In ogni caso, in
ogni processo cognitivo il tempo ha principalmente la funzione di
orientare il reale.
Cosa vuol dire?
31 - Sin dal Positivismo,
e fino a pochi anni fa, si presumeva che il compito della scienza fosse
quello di dare certezze. Il concetto di conoscenza implicava già questa
idea di certezza insita nell’uomo, inteso come osservatore
distaccato che descriveva l’universo in modo obiettivo, cioè
appunto dall’esterno. In altre parole, si credeva che se si avessero
avuto le conoscenze sufficienti
delle condizioni iniziali di un qualsiasi sistema, si poteva
facilmente predire ciò che
sarebbe accaduto.
Naturalmente questa teoria
non è del tutto errata. Per esempio, è vero che il funzionamento di un
sistema vivente è predittivo.
Da un certo punto di vista infatti, l’organizzazione
di un sistema vivente è conservatrice in quanto tende a ripetere
sempre ciò che funziona. Tuttavia, la
peculiarità di un’organizzazione non è tanto la ripetizione, quanto la
conservazione del sistema di riferimento, cioè il suo mantenimento.
Comunque, ritornando al
concetto di conoscenza inteso in senso classico, ciò che c’è
d’errato in quella teoria è sicuramente
l’eccessiva sopravvalutazione della conoscenza delle condizioni iniziali
del sistema osservato. Conoscendo tali condizioni è come se si
conoscesse sia il sistema nel suo insieme, sia tutti i sistemi simili ad
esso. E ciò non è possibile.
32 - Nella fisica classica
una traiettoria è eterna in
quanto non comincia e non finisce ed è quindi illimitata
nel tempo, cioè è a-temporale.
Nel campo della natura
umana, per esempio, è la certezza
ciò
che non conosce il tempo; infatti, la
certezza, cioè la linearità delle proprie idee, dei propri pre-concetti,
è a-temporale, sopravvive al trascorrere del tempo.
Tuttavia noi abbiamo a che
fare con un universo non lineare, cioè
con un universo basato su degli avvenimenti e sull’incertezza del
loro verificarsi. Un
avvenimento, qualunque esso sia, è comunque qualcosa di limitato nel
tempo: esso inizia e finisce.
La conoscenza delle
condizioni iniziali allora, servono a ben poco se nel sistema osservato
dovessero verificarsi delle perturbazioni,
degli imprevisti; cosa tra l’altro tutt’altro che improbabile.
33 - Una perturbazione è ciò che più facilmente s’incontra lungo un
percorso.
Il sistema di accoppiamento
osservatore-sistema osservato tenderà a mantenersi stabile finché
viene riconosciuta una reciproca coerenza. Quando però si verificano
delle perturbazioni, delle interferenze,
degli imprevisti, la relazione
che aveva operato fino a quel momento viene a cadere. Sarà necessario
allora predisporre un’altra relazione che corrisponda al mutamento
avvenuto e che ristabilisca l’equilibrio in base a un nuovo tipo di
adattamento.
La probabilità di
incontrare una perturbazione
cresce proporzionalmente all’allontanamento dalle condizioni iniziali di
quel sistema.
Quale che sia la precisione con cui conosciamo le
condizioni iniziali di un sistema, dopo un certo tempo ne perderemo
la traiettoria, che varierà esponenzialmente.
C’é sempre un imprevisto tra ciò che ci attendiamo che accada e ciò che si va a
realizzare.
E’ questa la caratteristica principale di ogni sistema dinamico
instabile: ogni volta che lo si fa ripartire ci dà una risposta diversa.
Noi possiamo predire solo delle probabilità, sapendo però che ogni
singola realizzazione sarà diversa dall’altra.
34 - I processi che si svolgono intorno a noi, inoltre, hanno
sempre un inizio e una fine, sono limitati nel tempo e irreversibili. Essi hanno cioè una direzione del tempo che va dal
passato verso il futuro e dove una causa deve precedere una
conseguenza e non viceversa.
L’essere umano è un
campione d’adattamento, sia biologico che sociale. Se la specie umana si
è ambientata così bene è perché è capace di adeguarsi
ad un ambiente mutevole. Ma, adeguarsi vuol dire anche agire: questa è la particolarità principale del nostro spirito,
essa stessa causa e conseguenza dell’adattamento. L’uomo sente il
bisogno di agire e reagire sull’ambiente in modo proiettivo e
finalizzato, e per far questo ha bisogno di prevedere
la conseguenza dei propri atti.
Percepire un tempo orientato, dove il futuro succede al passato e al presente, è
una condizione indispensabile per dare finalità ai nostri atti. Ecco
perché si affermava (31) che in
ogni processo cognitivo il tempo ha come funzione principale quella di
orientare il reale.
35 - Costruire una mappa
implica soprattutto la capacità di selezionare e quindi di saper
scegliere. Ma, decidere, per esempio, una certa relazione tra gli elementi
di un sistema piuttosto che un‘altra, scegliere
quale percorso seguire, adeguarsi ad un cambiamento, prendere comunque
in genere delle decisioni, sono tutti momenti in cui il tempo,
inteso come semplice durata, risulta inservibile.
Per esempio, la
coscienza
e la volontà sono, come si sa, due tra le funzioni principali
dell’uomo; esse normalmente viaggiano associate e non a caso, infatti,
il senso comune parla di coscienza
volontaria.
Henri Atlan, medico,
biologo e studioso dell’intelligenza artificiale, invece dissocia
radicalmente queste due funzioni. Dopo di ché
afferma che non ci può essere in noi un fenomeno di coscienza
senza conoscenza (percettiva, intuitiva, intellettiva, ecc..). Ogni
fenomeno di coscienza infatti
implica la presenza di ciò che è conosciuto, la conoscenza quindi è la
nostra memoria che si manifesta, in quanto l’unica conoscenza umanamente
possibile è quella relativa al passato.
In altre parole quindi, la
coscienza è orientata verso il passato.
Viceversa, per quanto
riguarda la volontà, egli
afferma che quasi mai le cose che ci capitano sono quelle che avremmo
voluto. In altre parole, ci accorgiamo che ciò che possiamo controllare
è solo ciò che ci è noto e quindi, ancora, ciò che è cosciente;
invece, ciò che quasi sempre si viene a realizzare fa parte di qualcosa
che sembra sfuggire a ogni tipo di volontà cosciente.
Noi operiamo con tutto il
nostro insieme, ma una parte di esso non è del tutto controllabile e in
ogni caso è ignoto. Questa parte di noi non può essere
conosciuta per il semplice motivo che si costituisce man mano che agisce,
quindi è imprevedibile in
quanto determinata dalle perturbazioni
e dalle aggressioni contingenti
dell’ambiente. Questa volontà,
che Atlan chiama volontà
incosciente visto che non può essere predeterminata e non sottostà a
nessuna conoscenza stabilizzata, è
orientata verso il futuro,
che determina strada facendo adeguandosi alla circostanze, cioè
auto-organizzandosi.
La memoria che rende presente il
passato si verifica quindi nelle azioni coscienti e volontarie.
La facoltà di auto-organizzazione,
che è un processo di creazione
e stabilizzazione della novità,
costituisce invece il futuro:
entrambe coesistono nello stesso sistema e contribuiscono alla
costruzione di una mappa.
36 - Domanda: perché si
ha la sensazione che l’uomo, nei confronti di un sistema di riferimento,
si trovi sempre nell’impossibilità di realizzare pienamente il suo
potenziale organizzativo?
La nozione di
complessità
pone l’uomo in una relazione diversa sia rispetto al mondo sia rispetto
alle scienze classiche, che in alcuni casi risultano ora inservibili o
comunque piuttosto obsolete.
Fino a un certo punto
della sua storia, infatti, l’uomo, per ottenere una visione d’insieme
in un sistema osservato, è stato abituato a sommare
gli elementi che lo costituivano. Sommare equivaleva a realizzare un
potenziale organizzativo.
Contando 1, 2, 3... e così
via, si poteva arrivare al di là di qualunque numero prefissato, senza
essere fermati da alcun ostacolo che fosse degno di questo nome. Questa
era l’idea di infinito a cui
l’uomo si era abituato.
Di positivo c’era che,
tale idea di infinito elargiva un certo qual senso
di potenza; essa era, infatti, la strada che conduceva verso l’affermazione
del soggetto.
E’ vero che l’infinitezza
faceva emergere dei limiti, tuttavia erano proprio quei limiti
che inducevano l’Io al superamento,
alla sua messa in gioco e ad
un’idea forte di destino.
Insomma, ogni percorso
era in qualche modo lineare ed esprimeva sempre la condizione di un
essere che aveva una direzionalità
temporale definita e il cui destino era lo sfondamento
(più o meno letterale) dei suoi limiti, visti il più delle volte
come una sorta di muri di recinzione.
Anche la metafora del deserto
rientrava nello stesso tipo di produzione teorica. Infatti, per quanto
esso designi una topica senza punti di riferimento (e quindi già più
complessa), un terreno dove non è dato percepire a prima vista nessun
tipo di traiettoria, né lineare, né circolare, ciononostante il
soggetto era sempre al centro del discorso e, per quanto nomade
potesse apparire, era sempre mettendo avanti un piede dietro l’altro che
fondava il suo riconoscimento (debole o forte che fosse).
1, 2, 3... un passo dietro
l’altro, si poteva arrivare al di là di qualunque limite, di qualunque
fondamento. L’essere, cioè, aveva una sua pregnanza di tipo lineare-aritmetico
il cui senso, il cui sapere, era dato dalla somma delle regole di
comportamento, intese qust’ultime né più e né meno che come numeri
primi. La sua esistenza si basava cioè su una semplice possibilità
di poter superare i propri limiti ed acquisire conoscenza grazie ad un
accumulo di tipo lineare.
La cosa non poteva durare
più di tanto.
37 - Con lo sviluppo del
linguaggio del computer e, più in generale, con lo sviluppo della
trasmissione digitale come forma di comunicazione quotidiana, ha preso
oramai piede una nuova affermazione che dice, per esempio, che tutti i numeri naturali sono pari o dispari; tale punto di vista
porta a conseguenze notevoli sul modo di interpretare il mondo.
Infatti, tutti i numeri
sono pari o dispari vuol dire che l’insieme dei numeri pari e
l’insieme dei numeri dispari sono visti come oggetti interamente dati.
Tale affermazione quindi, contiene in sé un infinito
di tipo attuale, attuale nel senso che si sta attualizzando un evento, che si ha a che fare con un dato di
fatto (tutti i numeri pari...)
e non più con una possibilità.
Insomma, affermando che
tutti i numeri sono pari o dispari, è come se il conto avesse già
avuto termine.
In questo modo cambia il
sistema
di rappresentazione dei numeri, che si basa ora solo su due valori
(pari
e dispari, ma potrebbero essere convenzionalmente indicati anche come
0 e 1). Cambiando il sistema di rappresentazione numerico, cambia anche il
sistema rappresentativo del mondo, per cui ora la conoscenza
(ogni tipo di conoscenza) non può più essere definita in base a un
semplice accumulo, bensì come prodotto di termini non più
necessariamente consecutivi, ma ricorsivi.
38 - Cosa vuol dire ricorsivo?
Vuol dire che l’insieme
degli eventi di un sistema, oppure uno stesso fenomeno, può avvenire ora contemporaneamente e a livelli diversi nello stesso
sistema di riferimento (esempio, la parità
nei numeri pari); tuttavia tali eventi ai vari livelli, hanno in
particolare il fatto di non essere esattamente gli stessi (come, appunto,
tutti i numeri pari).
Inoltre, anche se gli
elementi costitutivi di un sistema dovessero seguire una
progressione di tipo aritmetico, contemporaneamente
le interazioni tra di essi avverranno invece tramite intersecazioni di
tipo geometrico.
LE CONDIZIONI DELL’OSSERVATORE
39 - E l’uomo?
L’uomo è come se si
trovasse in mezzo a due fuochi: da una parte la complessità
dei sistemi, dall’altra la sua impreparazione,
il suo essere per natura inattuale.
L’uomo è costretto, in
una parola, ad attualizzare più
relazioni di quante sia capace di reggerne, e per di più
contemporaneamente.
La dinamica
contemporanea descrive un universo
instabile, un sistema in cui ciascun punto può andare in tutte le
direzioni.
Una situazione di questo
genere, ovviamente, sfugge ad ogni ordinamento per mete, fini o scopi che
dir si voglia. Infatti, ogni volta che si raggiunge una meta,
essa diventa il punto di partenza per qualcos’altro: più si
va in profondità, più aumenta la complessità. Più
ci si sforza di escludere il disordine e più non si fa altro che
trasferirlo altrove.
40 - Per quanto l’uomo
si sforzi, non riuscirà mai a raggiungere una formalizzazione e una
strutturazione della conoscenza che sia in grado di tener conto di ogni
elemento di un sistema di riferimento e della sua interdipendenza
rispetto a tutti gli altri: credere in una possibilità del genere è pura
follia.
Ma, forse anche follia è
un termine inattuale, meglio sarebbe dire ignoranza.
E non tanto l’ignoranza dovuta a una mancanza d’istruzioni per
l’uso, quanto piuttosto nel senso di ignorare,
di evitare, di rinviare.
L’uomo, per suoi limiti
intrinseci, non può che evitare ogni idea di totalità; egli riesce ad
avere a che fare solo con le singole parti di un sistema e, nello
stesso tempo, preferisce ignorare
il fatto di essere sempre in prima persona implicato nel sistema che
osserva.
Preferisce ignorare, cioè,
che non è più un osservatore che gode di una posizione
trascendente nei confronti dei fenomeni, e che non ha nemmeno
un’esistenza indipendente dalla realtà che osserva; egli
è piuttosto parte dello stesso sistema di riferimento e ne determina la
complessità al pari di tutti gli altri elementi, chimici o fisici che
siano.
Anche il suo spazio
temporale, scandito dalla progressione numerica 1, 2, 3..., è ormai
inserito in “una pluralità di tempi, ognuno dei quali è legato agli
altri con articolazioni sottili e multiple” (Prigogine).
Avendo a che fare con un sistema
complesso i cui elementi non sono separati ma integrati l’un l’altro su più livelli, non si ha la capacità
di cogliere gli eventi nell’insieme del loro accadere, dato appunto che
essi accadono in condizioni e tempi umanamente incontenibili e che non
sono né sommabili, né tantomeno mescolabili.
Per esempio: se si vuol
far la prova di pensare due pensieri diversi contemporaneamente, ciò che
si otterrà non sarà altro che un terzo pensiero, come prodotto che pensa
che deve pensare due pensieri diversi.
Ecco così un buon esempio
di cosa si intende per ricorsività.
Non si possono mescolare i
pensieri, né tantomeno sommare: si possono invece combinare. In ogni caso, il risultato che si ottiene non ha niente a
che fare con le informazioni iniziali di quel pensiero.
41 - Per attualizzare una
situazione di complessità, cioè per poterla rappresentare, l’uomo è costretto a mettere in successione, nello
stesso tempo, più eventi di un sistema, senza per questo riuscire
a raggiungere un’interdipendenza completa di ogni elemento con tutti gli
altri. Ciò che si riesce ad ottenere è direttamente proporzionale
alla quantità di elementi che ne rimangono esclusi.
In una favola c’era una
volta una volpe che desiderava dell’uva troppo in alto sul pergolato.
Dopo tanti tentativi falliti, rinunciò alla scorpacciata dicendo a se
stessa che l’uva era ancora troppo acerba. In questo modo, preferì rinviare piuttosto che ammettere i propri limiti.
Allo stesso modo, anche
l’uomo cerca di recuperare ciò che rimane escluso alla sua
conoscenza, trasformandolo parzialmente in rinvio.
Il conoscere deve essere sempre meno legato a qualcuno che, studiando
un oggetto ne cerchi esclusivamente un rispecchiamento di ciò che già
conosceva. La conoscenza
piuttosto, è un continuo adattarsi
alle riduzioni, ai rinvii e alle semplificazioni della mente.
42 - La conoscenza è
una continua selezione di
elementi per esclusione.
In qualche modo è come dire che
nell’uomo il limite del suo tempo lo induce ancora di più a prendere
tempo.
Creare una mappa, per esempio, vuol
dire isolare alcuni elementi di un sistema, cioè selezionarli
per ottenere un percorso significativo.
La stessa cosa, però,
potrebbe essere detta anche in un altro modo: creare una mappa vuol dire rinviare
gli elementi di un sistema che all’occhio dell’osservatore
portano disordine, al fine di ottenere, per esclusione, un
percorso significativo.
43 - Se per rendere
possibile la condizione del conoscere si tende a isolare, a rinviare il disordine, ciò che invece non può essere isolato è
proprio l’uomo. La sua esistenza come osservatore
deve essere infatti concepita interamente all’interno
del sistema di riferimento. Egli, pur mantenendo l’autonomia
della propria organizzazione,
è parte del processo in atto tra sé e lo stesso sistema di
relazione.
Ogni linea di demarcazione che comunemente viene utilizzata per definire
i confini, i limiti tra due
qualsiasi organismi messi in relazione (per esempio: uomo/ambiente;
osservatore/sistema osservato), in realtà non è altro che un canale
di comunicazione grazie al quale la condotta del primo termine è per
il secondo fonte di deformazioni compensabili grazie a un processo
selettivo (se si vuole, anche in senso darwiniano).
44 - Ma, cosa vuol dire selezionare
e cosa vuol dire rinviare?
Che differenza c’è tra i due termini?
La differenza non è da
poco. Il rinvio, infatti,
implica (anche in termini) una sorta di arretramento
nei confronti di una difficoltà, e contribuisce quindi a ripristinare
l’errore che vuole l’osservatore situato in una posizione esterna al
sistema che osserva; la selezione invece implica il
fatto di avere una certa consapevolezza dei propri limiti.
La selezione non
nega quelle stesse difficoltà, piuttosto è come una sorta di tattica che
tende ad isolarle momentaneamente come presupposto indispensabile per rendere
significativo un evento.
La selezione esprime meglio l’adattamento
dell’uomo nei confronti del contesto in cui è inserito, e quindi nei
confronti della complessità. Adattarsi
vuol dire essere già parte del sistema di riferimento.
45 - In termodinamica, un sistema
che possiede una certa quantità di ordine
è sempre un sistema
prevedibile. In esso, cioè, è possibile sapere cosa sta per
avvenire ancor prima che avvenga. Ciò che funziona ora in quel sistema è
ciò che funzionava anche prima: esso quindi, non farà altro che
ripetere sempre ciò che funziona.
Un sistema di questo tipo si dice predittivo:
un osservatore nei suoi
confronti non avrà bisogno di fornirsi di alcuna mappa,
dato che il percorso da
seguire è già segnato dalla prevedibilità del sistema stesso,
e dalla mancanza di perturbazioni
provenienti da esso.
Nella realtà però si
ha quasi sempre a che fare con sistemi
che per loro natura, e per il loro livello
di complessità, contengono un grado molto elevato di imprevedibilità.
Tale imprevedibilità è detta anche entropia.
Maggiore è l’entropia,
maggiori saranno le perturbazioni
che si riceveranno.
46 - Un sistema che
possiede una buona organizzazione non può essere un sistema
prevedibile, cioè a basso livello di perturbazioni. L’alto grado di
perturbazioni determina, sia un aumento di varietà (di qualità)
nel sistema stesso, sia un aumento dell’attività selettiva
dell’osservatore, e quindi un miglioramento del suo dominio
cognitivo.
Il
dominio cognitivo dell’osservatore
è il dominio di tutte le interazioni nel quale egli può entrare senza
perdersi, senza cioè perdere in identità.
47 - Il tipo di
osservazione che l’osservatore
produce non può che essere di natura anamorfica.
Cosa vuol dire anamorfico?
Vuol dire che non esiste
una visione esatta, assoluta del sistema osservato. Inoltre, dato
che esso può essere osservato da molti punti di vista, ognuno di quei
punti di vista avrà la capacità di determinare un dominio
cognitivo differente.
In altri termini, ogni
livello di comprensione del sistema osservato corrisponde ad un
certo livello di conoscenza.
Una mappa, quindi, non sarà altro che un tipo di conoscenza, una condotta
descrittiva, che esprime il dominio
cognitivo dell’osservatore.
Una mappa cambia se cambia il contesto (le condizioni) in cui si produce
l’osservazione.
Una mappa quindi, è una relazione tra l’osservatore e il sistema
osservato e le sue proprietà dipendono da entrambi.
48 - Una mappa non ha proprietà intrinseche; essa è piuttosto il prodotto
di una relazione tra l’osservatore e il sistema osservato, e ne
esprime tutti i limiti.
Cosa vuol dire?
Una mappa, oltre ad essere una rappresentazione del dominio cognitivo
dell’osservatore, è
anche una rappresentazione dei limiti di quest’ultimo e del suo
grado di incertezza.
Inoltre, una mappa può essere accettata solo in modo provvisorio. Potranno
infatti sempre verificarsi delle condizioni (anche casuali) tali da far
mutare la dinamica interna, sia del sistema osservato, sia dell’osservatore.
Quando ciò accede, il sistema osservato non sarà più il sistema
di prima, dato che sarà cambiato il contesto e quindi anche lo scopo
dell’osservazione.
La mappa di prima sarà oramai inutilizzabile e di conseguenza
risulteranno inutilizzabili anche le connessioni, le scelte e le selezioni
in base alle quali essa era stata definita.
All’osservatore
non rimarrà altro che ricreare delle nuove relazioni che facciano
coincidere di nuovo ciò che ora sta osservando, con la sua organizzazione
interna.
49- Questo trovarsi
ad un tratto in prossimità da
ciò che è noto a ciò che è ignoto, questo passaggio,
pur facendo parte del destino
dell’uomo e dell’accoppiamento
strutturale con il mondo in cui vive, tuttavia lo coglie sempre di
sorpresa e sfugge al suo controllo. Eppure, se il passaggio
sfugge al controllo, nello stesso tempo, in quel mutamento improvviso, si
manifesta qualcosa, una sorta di verità, che allo stresso uomo finora era
rimasta nascosta.
A questo proposito, viene
spontaneo ricordare Heidegger. Per lui il
noto e l’ignoto, la verità e l’errore, l’occultamento e il
disvelamento, sono indissolubilmente legati nella loro essenza, e il
continuo passaggio dall’uno
all’altro mette in evidenza quanto sia illusorio per l’uomo il
fermarsi in una di quelle oscillazioni. Come se da quel fermarsi
potesse derivarne un qualunque statuto di fondatezza, come se in esso
fosse custodita una forma originaria di verità. Ma, egli dice, l’unica
verità è ciò che sempre e solo trascorre.
50 - E’ una ben strana
verità quella che si manifesta proprio mentre muta.
A colui che osserva non
rimane che la consapevolezza che non c’è niente che egli possa
trattenere, che non c’è alcuna verità definitiva su cui fondare i
propri passi.
Quando cambia il contesto,
quando cambiano le circostanze che hanno reso attuabile una relazione tra osservatore
e sistema osservato, non c’è alcun modo di prevedere quale nuova
configurazione si verrà a creare.
Sia l’osservatore che il sistema
osservato sono sistemi complessi,
cioè sistemi con relazioni e interazioni multiple tra i loro elementi.
Essi avranno quindi al loro interno, un grado talmente alto di imprevedibilità, da rendere del tutto improbabile la possibilità
che il nuovo contesto abbia qualcosa a che fare con la configurazione che
l’ha preceduto.
51 - Ciò che emerge nei
sistemi
complessi obbedisce sempre e solo alla regola della probabilità
e mai della prevedibilità.
C’è sempre la possibilità
che un certo fenomeno avvenga, tuttavia esso
non è mai prevedibile.
Il grado di prevedibilità
aumenta se si ha a che fare con un sistema fornito di scarsa
complessità, cioè di scarsa autonomia.
PERTURBAZIONE
52 - Trovarsi in presenza da
ciò che è noto a ciò che è ignoto, vuol dire anche avere a che
fare improvvisamente con una perturbazione.
Però bisogna prestare
attenzione a non usare il termine perturbazione
in modo troppo letterale, altrimenti si corre il rischio di intenderlo
come qualcosa che proviene (in senso dinamico) dal sistema osservato,
come una sorta di rumore o di interferenza nel flusso delle
informazioni che raggiungono l’osservatore.
Se è vero che le perturbazioni
sono anche rumore (von Foerster),
non è vero però che esse provengano dal sistema con cui si è in
relazione. Le perturbazioni si
generano piuttosto all’interno della relazione, dell’accoppiamento
osservatore-sistema osservato, e denunciano che un certo aspetto
di quella rete si trova in una situazione di non-ovvietà.
Le perturbazioni cioè,
essendo delle interruzioni
all’abituale esserci dell’uomo, mettono in luce ciò
che nella sua pratica quotidiana egli ha sottovalutato: ciò che è
rimasto irrisolto, il vero ordine di un problema su cui dover intervenire.
Inoltre, quella situazione
di non-ovvietà (Winograd la chiama breakdown),
oltre a denunciare la mancanza di
qualcosa, cioè, per esempio, il nesso di relazioni necessario e più
significativo da utilizzare per riuscire a muoversi all’interno del sistema
di riferimento, mette alla prova la natura delle risorse umane e il
grado di adattabilità dell’uomo nei confronti di una situazione
di incertezza.
53 - Ma, non si può
ricercare la soluzione adatta allo spazio di un determinato problema,
finché non sia stato definito proprio lo spazio di quel problema. Una perturbazione serve proprio a questo: a rendere spaziale il
problema; a dargli dei confini;
a definirlo nel modo più chiaro possibile al fine dell’intervento più
idoneo.
Tuttavia, una situazione
di incertezza non è quasi mai
causata da una perturbazione,
per il semplice motivo che, quando
si è in presenza di quest’ultima, l’incertezza è già passata;
oramai la perturbazione è avvenuta (di ciò si è certi), e l’unica
cosa che all’uomo rimane da fare è cercare di adattarsi ad essa,
intervenendo secondo le sue risorse.
Una situazione di incertezza
è causata dal fatto di non sapere,
né quando la perturbazione si verificherà, né quale sarà la sua natura.
La possibilità di prevederla sfugge al controllo. L’improvviso passaggio
da un contesto all’altro, l’aumento di entropia
(45), tutto ciò avviene indipendentemente dalla volontà dell’uomo.
54 - Per quanto l’uomo
senta il bisogno di accertarsi che ogni cosa che lo circonda sia dotato di
senso, tuttavia, qualche volta, questa capacità di comprendere (e quindi
di comprendersi) sembra impedita da un limite
invalicabile.
“L’essere è un progetto gettato”,
dice Heidegger, è gettato
all’interno di suoi limiti.
Strano limite in verità: se a prima vista esso sembra rappresentare
l’orizzonte aperto alle possibilità dell’uomo (da cui il significato
di essere che si progetta), in realtà però sembra proprio che tale orizzonte
sia aperto solo per entrare e non per uscire.
L’esserci, cioè la possibilità di scegliere ciò che si è,
può avvenire quindi solo all’interno
dell’esistenza in cui l’uomo è
gettato.
Comprendere ciò
che si è, è sempre meno un autopro-gettarsi
e sempre più un sapere di non essere padrone di se stessi, ma di
trovarsi in mezzo a ciò che avviene e quindi di doversi accettare
là dove ci si trova.
In definitiva quindi,
una perturbazione non si può
evitare, piuttosto è qualcosa della cui possibilità bisogna essere
consapevoli. Anch’essa fa parte della natura e del destino
dell’uomo.
55 - Ogni modificazione che avviene in un
sistema a causa di una perturbazione,
deve essere considerata irreversibile.
In altre parole, se una perturbazione
sottolinea l’ampiezza di un determinato problema, e fa emergere la
modificazione avvenuta, compito dell’uomo (osservatore) sarà
quello di ristabilire l’equilibrio mancante tra sé e quel sistema di
riferimento. Tuttavia, ristabilire un equilibrio non vuol dire
ricostruire in qualche modo una situazione perduta.
La presenza di una perturbazione
è segno che sta avvenendo una certa evoluzione
nel sistema di relazioni.
L’osservatore deve ora scegliere la rete di connessioni più adatta al
nuovo livello raggiunto dal sistema.
Adeguarsi a una
perturbazione corrisponde quindi ad un’evoluzione delle capacità
cognitive dell’osservatore.
56 - Una perturbazione non deve essere vista come qualcosa di pericoloso o
dannoso.
Anzi, esistendo solo
all’interno del rapporto osservatore-sistema
osservato, essa evidenzia, da una parte i limiti di tale
osservazione, ma soprattutto stimola la necessità di adattarsi al
cambiamento.
57 - Generalmente si dice
che una buona capacità cognitiva
consiste nell’agire appropriatamente al fine di ricercare le soluzioni adatte in un
contesto di non- prevedibilità, cioè in una situazione d’incertezza.
Ciò, tuttavia, non vuol
dire che si possa scegliere un comportamento appropriato ancor prima che
insorga una perturbazione. La
cosa non avrebbe senso. E non solo perché è praticamente impossibile
evitare una perturbazione
progettando in anticipo un qualche tipo di intervento, ma soprattutto
perché sarebbe fuori luogo progettare qualcosa che eviti una perturbazione,
visto che è proprio grazie ad essa, grazie cioè agli stimoli che da
essa provengono, che si sviluppa nell’osservatore
quel meccanismo di ricerca, di comprensione e di adattamento al nuovo
che determineranno la sua crescita
cognitiva.
58 - Mettiamo che un osservatore
si sia fornito di una mappa per
intervenire in modo adeguato in una situazione d’incertezza. Costui dunque, momentaneamente, è riuscito a diminuire
la sua ignoranza.
Solo momentaneamente però. Infatti, man
mano che il tempo passa, lo stato in cui si trova il sistema si
allontanerà dal punto in cui era stato rappresentato.
Se quell’osservatore,
dopo un pò, tentasse di rappresentarsi
quello stesso sistema grazie
alle coordinate e al significato che gli aveva attribuito precedentemente,
molto probabilmente non lo riconoscerebbe più.
Cos’è accaduto?
E’ accaduto che,
man
mano che il tempo è passato, i
punti compatibili con le condizioni iniziali non sono rimasti immobili
(secondo principio della termodinamica); essi piuttosto hanno dato
luogo a traiettorie che si sono allontanate sempre più dalla regione in
cui erano stati costretti. Il significato che era stato dato al sistema
osservato, e di conseguenza quella mappa
che lo rappresentava, ha perso irrimediabilmente ogni sua pertinenza. Il sistema è ora di nuovo in equilibrio (termodinamico), dato che ha
sconfinato i limiti che l’osservatore gli aveva assegnato, ed
ora può trovarsi in ogni punto dello spazio.
59 - Per l’osservatore, il fatto stesso di non riuscire più a distinguere i confini
della sua mappa dallo sfondo in cui era inserita, è già di per sé causa di
una nuova perturbazione. Ciò
che gli resta da fare, quindi, è cercare di utilizzare le differenze che
ora percepisce rispetto a prima, e in base ad esse costruire una nuova
localizzazione (cioè nuove strategie) che ristabiliscano
l’adattamento.
Va da sé comunque che,
ogni volta che un osservatore ha
a che fare con una situazione
complessa, ne analizza e ne definisce le proprietà dal suo punto di
vista, che è un punto di vista limitato.
Quando nel tracciare una mappa
egli si trova in prossimità di un bivio,
di una biforcazione (che può anche essere multipla), sceglierà una sola
di quelle direzioni, escludendo le altre.
Questa esclusione però,
non vuol dire che tutte le direzioni siano errate tranne quella scelta.
Non vuol dire che esse siano inutili o che non conducano in alcun posto o
verso connessioni ugualmente importanti. Significa solo che la
scelta è stata fatta sulla base delle condizioni contingenti alla
dinamica interna dell’osservatore, cioè, in una parola, in base a
limitati modelli di riferimento oltre che, naturalmente, in base
alla qualità della perturbazione ricevuta.
I percorsi esclusi,
se fossero stati scelti, avrebbero condotto verso altre connessioni,
ugualmente significative e ugualmente articolate e avrebbero contribuito a
determinare un altro tipo di accoppiamento
strutturale.
Ma, essi non sono stati
scelti dato che erano come nascosti
alla vista.
60 – E a proposito di nascondimento
alla vista, viene in mente Heidegger quando parla di “nebulosità
della vita”.
Che la vita sia nebulosa
non vuol dire semplicemente che la vista dell’osservatore
sia sempre offuscata; vuol dire piuttosto che è la vita stessa a
realizzarsi, sia tendendo a conoscere nella chiarezza, sia nascondendosi
nell’oscurità.
In questo senso allora,
ogni atto cognitivo non deve essere
inteso come uno strappare dal suo nascondimento ciò che non è evidente,
come in una rapina, l’atto del conoscere piuttosto, deve
portare con sé la consapevolezza che ogni verità messa in luce rischia,
prima o poi, di risprofondare nell’oscurità. Ogni volta che l’uomo crede
di aver scoperto una verità,
c’è sempre una non-verità
che le fa da contrappeso.
Egli deve essere
consapevole di questo limite,
così profondamente umano, ogni
volta che si trova di fronte ad una scelta. Ogni volta che all’uomo
si apre una possibilità, si può star certi che in quel preciso istante
se ne stanno chiudendo altre.
61 - Tutto ciò sembra
suonare, in qualche modo, come una critica fin troppo sbrigativa a quello
che viene normalmente definito come il pensiero
calcolante della nostra epoca. Una critica cioè, verso quel
pensiero (purtroppo dilagante) che cerca di impostare il futuro
dell’umanità in base a una pianificazione
e a una tendenziale riduzione di
tutto a fondamento; come se dall’irrigidimento di ogni rappresentazione
potesse derivare una verità
inamovibile, sempre disponibile,
facilmente valutabile e manipolabile, e quindi fatta a uso e consumo di questa società
dello spettacolo.
Critica giusta, in verità,
se però si tiene conto di un fatto: e cioè che il pensiero calcolante,
piaccia o no, fa parte della natura dell’uomo, nel senso che esso esprime,
sia la necessità di pensare, sia il limite di tale modo di pensare.
In un certo senso, quindi, esso risulta essenziale oltre che inevitabile.
Così come risulta
inevitabile, per un osservatore, cercare ogni volta di superare
i propri limiti, o quantomeno di definirli, fornendosi di una mappa che sia sempre disponibile e facilmente consultabile. Semmai
l’errore consiste nell’illusione che possa esisterne una che sia
immune al destino di obsolescenza
che invece le è proprio.
62- Ma anche in questo
caso, più che di un errore si
tratta di un gioco che
l’uomo fa con se stesso: sperare
di saper dominare la prossima e inevitabile perturbazione, essendo
consapevole di non poter fare completo affidamento sulle sue capacità di
controllo, su processi che non sono del tutto calcolabili.
In questa sfida egli, in quanto osservatore,
si espone tanto quanto ciò
che osserva e, nello stesso tempo, al pari di ciò che osserva, è sempre qualcosa
in più di ciò che semplicemente appare
alla vista. Infatti, il suo modo di osservare produce pensiero;
ed è il suo pensiero che si espone, e che esponendosi apprende.
Ma, se fa parte della
natura umana percepire come sfida ciò
che sfugge alla vista, ciò che si nasconde, questo però non vuol
dire che il destino dell’uomo sia sempre quello di stare
in mezzo ad una sfida, in
senso agonistico e che, oltretutto, il più delle volte non può
scegliere.
“Stare in mezzo” dovrebbe, invece, essere inteso come: “essere
in accordo”(Heidegger), come un far parte, cioè, dell’accoppiamento
strutturale con il mondo in cui si è collocati.
63 -
Viviamo in un universo che non è in equilibrio.
Tuttavia, è proprio lontano dall’equilibrio che noi cominciamo a
percepire il nostro ambiente e a distinguerne le differenze che in una
situazione di equilibrio non avrebbero avuto significato.
Distinguere le differenze quindi, accorgersi cioè che una parte del
sistema di riferimento è in ritardo, vuol dire anche
iniziare ad usare tali differenze per produrre differenti
relazioni tra noi e il mondo.
Domanda: come si situa la scuola
rispetto a questa evidenza?
Il più delle volte, essa
è ancora il luogo dove l’esperienza si fonda su norme e
interpretazioni confezionate in modo tale da poterne sempre riprodurre
l’uso in maniera statica.
Davanti a una
caduta
di stabilità quindi, si preferisce considerare tutto ciò che
contrasta con i modelli acquisiti, come un
errore da eliminare.
La scuola, ovviamente, è
sempre vista come luogo
d’apprendimento, come il ricettacolo
del sapere (da trasmettere da una generazione all’altra). Ma
forse bisognerebbe iniziare a riflettere su un’evidenza, e cioè che,
per quanto grande possa essere, un
ricettacolo avrà sempre dei
limiti, dei confini che stabiliscono una separazione tra un dentro e un fuori,
grazie ai quali poter attuare un maggior controllo.
I confini esistono quando, per qualche motivo, si vuole ignorare ciò
che sta fuori. E allo stesso modo, ogni controllo si fa più stringente là
dove maggiore è la possibilità che qualcosa sfugga.
64 - Insegnare, così come imparare,
vuol dire mettere a confronto teorie con altre teorie, luoghi
d’osservazione con altri con altri luoghi
d’osservazione.
Ma, bisogna essere
profondamente consapevoli che non esiste un luogo
teorico dove vengono elaborati dei concetti che poi saranno attivati
in un luogo pratico.
L’apprendimento avviene nel luogo e nel momento preciso dove si sta
costruendo un certo tipo di rapporto (un accoppiamento strutturale, 16).
Bateson affermava che una
delle difficoltà più grandi legate all’insegnamento è la paura
di partire ad esplorare.
Tuttavia i tempi sono maturi per prendere
una decisione.
E tanto più, forse, vale
la pena tentare, visto che la
decisione da prendere non consiste tanto nello scegliere tra una certezza
e un’incertezza, ma tra incertezze diverse.
Pino Iannello ‘03
e-mail: pinoiannello@virgilio.it
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