Hai una mappa?

Su Le lezioni Co.r.t. rivoluzione industriale 3° Congresso regionale dell'Anp didattica e web 9 aprile Amnesty Hai una mappa?

 

 

HAI UNA MAPPA?

 (a proposito di COGNITIVISMO e di COMPLESSITA’)

                                               di Pino Iannello

   

INTRODUZIONE AL CONCETTO DI MAPPA

 

0 - Nel lavoro che segue si è voluto usare la nozione di mappa come metafora per pensare la conoscenza. Pur essendo consapevoli dei limiti cui tale immagine rimanda, si spera che comunque tale semplificazione possa facilitare la comprensione di ciò che s’intende per Cognitivismo, e di alcuni altri fecondi concetti ad esso connessi.

 

1 - Volendo definire in sintesi il concetto di educazione, essa viene normalmente intesa come trasmissione di cultura attraverso un apprendimento di tipo programmato. L’insegnante che si serve di un’unità didattica o che utilizza un progetto educativo, non fa altro che costruire un percorso reputato funzionale e comunque conveniente per la crescita dello studente. La funzione dell’insegnante quindi è quella di guidare l’allievo verso il raggiungimento di un obiettivo (il più delle volte didattico).

Questo tipo di apprendimento viene chiamato anche apprendimento guidato e di conseguenza, usando un po' di fantasia, in questo caso l’insegnante potrebbe essere inteso come una sorta di costruttore di mappe, cioè come colui che utilizza dei percorsi e che ha una funzione di guida nei confronti dello studente.

 

2 - All’apprendimento guidato si sovrappone il cosiddetto l’apprendimento non guidato. Quest’ultimo viene attivato quando l’individuo si trova a far parte di un contesto molto più complesso del mondo della scuola, un contesto dove le immagini, i messaggi e gli stimoli sono prevalentemente casuali e aleatori e dove non esiste un intervento semplificatore da parte dell’insegnante.

 

3 - Se si mettono a raffronto questi due tipi di apprendimento, risulta che:

- l’apprendimento guidato comporta una sorta di gradualità di ciò che si apprende, e soprattutto che ciò che si apprende è sempre previsto in precedenza, in quanto già ampiamente sperimentato. L’attività di elaborazione dello studente, in questo caso, consiste nello scegliere tra una gamma molto ristretta di risposte, quella che meglio corrisponde a un certo stimolo;

- l’apprendimento non guidato invece, non essendo di tipo programmato, conduce ad un’attività più elaborata della coscienza cognitiva dell’individuo che, per prendere delle decisioni, o per dare un senso agli stimoli esterni che riceve in quel momento, deve soprattutto stabilire delle relazioni tra essi. Connettere i vari stimoli e metterli in relazione, comporta un tipo di apprendimento del tutto nuovo basato soprattutto sull’esperienza. Questo apprendimento è del tutto nuovo anche perché la novità proviene dal carattere indeterminato degli stimoli, che giocano ora un ruolo di perturbazione aleatoria, cioè di imprevisto.

 

4 - Con un po' di fantasia, anche nell’apprendimento non guidato, il fatto di stabilire delle relazioni tra gli stimoli, si potrebbe intendere come un modo diverso di creare mappe spazio-temporali dell’ambiente circostante, mappe che però sono ben diverse da quelle comunemente usate dall’insegnante. 

Infatti, mentre le mappe scolastiche non sono altro che semplici rappresentazioni di percorsi già sperimentati, quest’ultime invece sono il risultato di una scelta e devono essere quindi intese come un metodo connettivo per il ritrovamento di vie agibili. Questo secondo tipo di mappe quindi, non ha la presunzione di spiegare come il mondo è, ma rivela piuttosto che “... è possibile essere nel modo in cui siamo e agire nel modo in cui abbiamo agito. Ci rivela che la nostra esperienza è praticabile” (Varela, La Realtà Inventata, pag. 270).

 

5 - Mentre nel caso dell’apprendimento guidato è l’insegnante che dice ciò che bisogna imparare, nell’apprendimento non guidato è invece l’individuo che, essendo posto in un contesto ogni volta nuovo, crea i modelli che in seguito egli stesso si condizionerà a riconoscere.

 

6 - Mentre il primo tipo di apprendimento è ripetitivo, il secondo è creativo. Mentre il primo trasmette cultura, il secondo la crea.

Il passaggio dall’apprendimento guidato all’apprendimento non guidato corrisponde alla crescita dell’individuo che da giovane diventa adulto ed è ciò che noi comunemente chiamiamo maturazione.

 

7 - Come sarebbe una scuola che avesse come compito quello di trasmettere gli strumenti per preparare l’allievo alla comprensione del nuovo, cioè dell’imprevisto?

Come sarebbe una scuola che accettasse l’imprevisto, come parte coerente ed ineliminabile per l’allievo e per il suo futuro destino?

Naturalmente non si sta cercando di dire che la scuola debba in qualche modo far suo l’apprendimento non guidato. Sarebbe un ridicolo paradosso, un controsenso. La scuola per sua natura è (e non può essere altrimenti) luogo di apprendimento guidato (impositivo?). E tuttavia, è proprio dall’interno di questa sua specificità che potrebbe nascere qualcosa che fosse nuovo e nel contempo coerente con la sua natura.

 

8 - Se la scuola è il luogo dove si costruiscono mappe, esse però il più delle volte, fuori da quel contesto, sono inutilizzabili, dato che pretendono di fornire certezze che, prima o poi, risulteranno false. E’ arduo infatti trovare fuori dalla scuola qualcosa che vi somigli come modello (per esempio: l’accumulo nozionistico come indice di maturità).

Ma, come abbiamo detto, esiste un altro tipo di mappa, una mappa che varrebbe la pena tentare di far entrare nella nostra scuola.

Cosa porterebbe di nuovo?

Mentre il primo tipo di mappa, tentando di incanalare lo studente su percorsi già noti e considerando tutto il resto un’inutile deviazione, ha la funzione di scartare gli errori, il secondo tipo di mappa invece, avendo riguardo per l’incertezza insita in ogni percorso, ed essendo consapevole della contingenza di ogni scelta, avrebbe la funzione (dal punto di vista cognitivo) di tener conto dell’errore.

Questo secondo tipo di mappa infatti, invece di cercare di fornire delle risposte, si assume esclusivamente la responsabilità delle domande.

Mentre nel primo caso, ciò che conta è avere a disposizione una mappa per poter seguire un percorso, nel secondo caso invece, ciò che conta è il perché sono state scelte proprio quelle connessioni, piuttosto che altre, per costruire una mappa.

La scommessa, in definitiva, è di riuscire ad inserire nel mondo della scuola questo interrogativo.

 

PENSANDO UNA MAPPA

OVVERO: COS’E’ LA COMPLESSITA’

 

9 - Chiunque si accinga a pensare a una mappa come metafora della conoscenza, prima o poi si imbatterà con la nozione di complessità.

Si ritiene utile quindi stabilirne un profilo che, per quanto appena accennato, possa servire da sfondo a tutto il discorso.

Fondamentale per una prima comprensione di cosa si intenda per complessità è definire il concetto di sistema.

Generalmente quando si pensa a un sistema, viene in mente un insieme caratterizzato da un numero sufficientemente grande di elementi.

Ma, sufficientemente grande per che cosa?

Una risposta probabile potrebbe essere: per poterlo definire sistema complesso.

Tuttavia, non è solo il fatto di possedere un numero più o meno grande di elementi che rende complesso un sistema; non è cioè solo una quantità numerica che può definirlo come tale. Ciò che è rilevante semmai è il fatto che un aumento aritmetico del numero dei suoi elementi conduce a una crescita di tipo geometrico delle relazioni tra quegli stessi elementi.

Ma, mentre un aumento aritmetico degli elementi potrebbe sembrare facilmente controllabile, grazie a una semplice sommatoria, quando quegli stessi elementi crescono in proporzione geometrica, essi non si lasciano più semplicemente assommare, avendo nel frattempo acquisito una qualità di tipo superiore: possono cioè essere combinabili tra di loro.

Il sistema ora non è più facilmente controllabile, essendo aumentate le relazioni tra i suoi elementi.

Un sistema si può considerare complesso, quando è così grande da non poter più collegare ciascun elemento con ogni altro.

 

10 - Eppure la proposizione precedente non può soddisfarci, e ciò per il semplice fatto che, ogni volta che noi abbiamo a che fare con una quantità relativamente grande di elementi, magari sparpagliati in modo casuale su una porzione di spazio, oppure quando abbiamo a che fare con un insieme di avvenimenti apparentemente slegati tra di loro, quando cioè non riusciamo a capire che tipo di relazione li unisca, certamente non diciamo come prima cosa, di avere a che fare con una “situazione complessa”; diciamo piuttosto che quella situazione è “confusa”, oppure che è disordinata.

In altre parole, se volessimo definire un sistema disordinato, potremmo dire che: un sistema si può considerare disordinato, quando è così grande da non poter più collegare ciascun elemento con ogni altro.

Ora, come si vede, quest’ultima proposizione è uguale a quella che tentava di definire un sistema complesso, e questo non può andar bene.

Ci deve essere qualcosa che distingue la complessità dal disordine.

Forse sarebbe meglio dire che: tra i due si considera complesso solo quel sistema che assume un significato agli occhi di un osservatore.

 

11 - Cosa vuol dire?

Vuol dire che, quando vogliamo dare un senso a una situazione non lineare (cioè con connessioni multiple tra tutti i suoi elementi), quando ci troviamo di fronte a una situazione disordinata, per prima cosa ci viene naturale cercare di attuare una sorta di selezione negli elementi di quel sistema, scegliendo tra essi quelli che sembrano più significativi al nostro fine, ordinandoli poi in uno dei tanti possibili modi con cui possono essere messi in relazione.

Prima, quindi, selezioniamo, poi ricombiniamo gli elementi scelti, a seconda della qualità che vogliamo farne emergere. In questo modo abbiamo attuato una combinazione selettiva.

Quest’ultimo termine mette in evidenza, da una parte la scelta fatta su alcuni elementi del sistema considerato, e dall’altra la sequenza ordinata degli elementi scelti, cioè il senso attribuito a quella connessione. Il senso deriva dal fatto  di avere accostato gli elementi proprio in quel modo, secondo quell’ordine, e non in un altro (che comunque poteva essere sempre possibile).

 

12 - Una combinazione selettiva la si può considerare già una mappa?

Sì, in quanto è un percorso reso lineare dalle direttrici di senso da noi scelte.

Il termine lineare, ovviamente, non è da prendere alla lettera (riferendolo cioè al senso della lunghezza di una retta che congiunge due punti), vuole piuttosto esprimere l’insieme dei segmenti di connessione di alcuni punti scelti tra i tanti che compongono un sistema. Tale insieme di segmenti, è ora riconoscibile come percorso grazie a quelle connessioni che lo hanno evidenziato rispetto al caos che gli faceva da sfondo.

 

13 - Volendo allora rendere evidente la differenza che sussiste tra l’idea di complessità e quella di disordine, si diceva (10) che si considera complesso solo quel sistema che assume un significato agli occhi di un osservatore. Con ciò però, non si voleva affermare che in natura esista, da una parte un mondo complesso e dall’altra uno disordinato, e che di conseguenza il nostro compito sarebbe quello di discernere tra l’uno e l’altro, di distinguere cioè tra un sistema che sia governato dal disordine e un sistema che sia governato dalla complessità.

Spesso usiamo il termine osservatore per designare qualcuno che sta svolgendo un atto cognitivo (qualcuno che apprende dall’osservazione del mondo), tuttavia colui a cui abbiamo dato questo nome non si limita solo ad osservare. Il nostro non è altro che un termine di comodo. Egli, piuttosto, attua delle scelte tra gli elementi di un sistema, crea delle relazioni tra di essi; e inoltre sempre a lui compete l’attribuzione del significato da dare a quelle relazioni.

Quelle relazioni quindi non esistono già in natura, ma sono di produzione dell’osservatore, così come tutte le connessioni e il loro significato.

Ogni volta che cerchiamo di raggiungere un obiettivo, ogni volta che costruiamo delle idee, ogni volta che incontriamo ostacoli lungo il nostro percorso, tutto ciò non è altro che il nostro modo di concettualizzare l’esperienza, ed è nostra esclusiva produzione. Inoltre, è anche un altro modo per definire la complessità.

 

14 - Tanto maggiori sono le relazioni che si possono individuare in un sistema, tanto più abbiamo a che fare con un sistema diversificato. Tanto più riusciamo ad ottenere una struttura concettuale significativa all’interno di quelle relazioni, tanto più abbiamo a che fare con la complessità.

Quando si parla di struttura concettuale però, non bisogna cadere nell’errore di considerare proprio quella struttura come l’unica possibile di quel sistema. In verità possono sussistere centinaia, migliaia di relazioni tra le parti di un sistema e tutte possono essere ugualmente significative. E’ solo il limite della nostra capacità cognitiva che riesce a mettere in risalto un solo percorso alla volta.

Quando si dice che si considera complesso un sistema che assume un significato agli occhi di un osservatore, si vuol dire che l’osservatore viene riconosciuto come corresponsabile della produzione di quel significato. Tale significato quindi, non è una qualità immanente al sistema osservato, ma dipende piuttosto da un certo modo di prestare attenzione da parte dell’osservatore.

Mettere in risalto un percorso piuttosto che un altro, dipende dalla storia dell’individuo che osserva, dal suo patrimonio cognitivo e, perché no, anche dal suo senso comune. Possiamo allora aggiungere un elemento in più alla definizione di complessità dicendo che: la complessità non può che essere prodotta da un osservatore.

 

15 - Quanto detto precedentemente non deve stupirci più di tanto, soprattutto se impariamo a fare nostra l’idea che ogni osservatore fa sempre parte del sistema che osserva.

Cosa vuol dire? Vuol dire che non esiste un luogo specifico dove collocare un osservatore. Certamente egli non si trova fuori dal sistema che osserva, dato che non esiste una vera e propria linea di distinzione tra lui e il sistema osservato. Piuttosto egli, osservando, partecipa già a una produzione di relazioni. Anche se ogni sua interpretazione può essere solo di tipo soggettivo, nello stesso momento in cui mette in funzione una certa lettura di quel sistema, dà a ciò che osserva una forma, un significato, cioè, in qualche modo, produce ciò che osserva.

Ogni interpretazione dà significato al sistema osservato e contribuisce a produrre un certo livello di complessità in quello stesso sistema.

Produrre significato è un’altra condizione della complessità.

 

16 - Aumentare il livello di complessità in un sistema vuol dire renderlo più significativo. Inoltre, la complessità aumenta proporzionalmente alla crescita del patrimonio cognitivo dell’osservatore.

Quindi, quando si dice che la produzione di significato dipende sempre dal sistema osservato e dall’osservatore, si intende dire che essi si alimentano reciprocamente e ricorsivamente.

Cosa vuol dire ricorsivamente?

Vuol dire che, da una parte è l’osservatore che, accrescendo il suo patrimonio cognitivo, produce significato nel sistema di riferimento, e dall’altra è lo stesso sistema che, di conseguenza, è diventato ora nuovamente stimolante agli occhi dell’osservatore; entrambi quindi sono pronti per ricominciare il ciclo.

Quando si dice che l’osservatore fa parte del sistema che osserva, s’intende dire che egli si evolve proporzionalmente alla crescita di significato nel sistema di riferimento, e di conseguenza che esiste una relazione dinamica tra le due parti tale da poter affermare che, anche lo stesso sistema di riferimento è corresponsabile della creazione di complessità.

A tale reciproca relazione, a tale corresponsabilità, viene dato anche il nome di accoppiamento strutturale (Maturana, Varela).

 

17 - Si è detto che una combinazione selettiva (11) è una sorta di percorso messo in evidenza rispetto ad una situazione caotica che gli fa da sfondo. A tale percorso abbiamo dato il nome di mappa.

Una mappa serve a rendere significativo un percorso; infatti, quando si ha a che fare con un sistema caotico (per esempio, una situazione che a noi appare disordinata), il primo problema che si pone è proprio quello di riuscire a individuare qualcosa di riconoscibile come mappa per tirarsene fuori. Il primo problema quindi, è saper distinguere dei confini che possano identificare un percorso, che possano identificare cioè, un’unità dotata di senso rispetto alla situazione indifferenziata circostante.

Ma, guardare a un insieme caotico e indifferenziato, con la speranza di individuarne prima o poi un percorso significativo, non ha alcun senso ed oltretutto è una perdita di tempo. Attuare invece una combinazione selettiva ha già più senso.

Tuttavia, prima o poi sorge una domanda: in una combinazione selettiva, in base a cosa vengono isolate alcune relazioni di un sistema piuttosto che altre? In base a cosa, cioè, è stata attuata una scelta?

Attenzione, questa domanda non è poi così banale come potrebbe sembrare a prima vista. Essa, infatti, tiene conto del fatto che, quando si ha a che fare con una combinazione selettiva, vuol dire che si sta già seguendo il percorso di una mappa, nel senso che una mappa già c’è.

Diverso invece è il significato che assume quella stessa domanda se viene posta nel momento in cui l’osservatore, pur essendo all’interno di un sistema, non è ancora in grado di riconoscerne i confini, non è ancora in grado cioè di identificare un percorso. In questo secondo caso una mappa ancora non c’è e la domanda, quindi, potrebbe essere: quali sono le condizioni a cui deve prestare attenzione l’osservatore per essere in grado di attuare una scelta?

 

18 - Ogni sistema complesso ha bisogno di un suo spazio in cui rappresentarsi come unità topologica. Senza unità in qualche spazio, un sistema non è diverso dallo sfondo nel quale si trova.

Se il sistema considerato è un sistema vivente, lo spazio di cui ha bisogno non può che essere uno spazio fisico. Senza unità in uno spazio fisico, a un sistema vivente mancherebbe tutta quella dinamica di relazioni che lo costituiscono come un’entità concreta in quello spazio. Egli ha quindi bisogno di uno spazio dentro il quale esplicare la sua organizzazione di sistema vivente.

Abbiamo trovato, dunque, un’ulteriore definizione di complessità che suona così: un sistema complesso è un’unità che si definisce mediante una sua organizzazione interna i cui componenti interagiscono e hanno relazioni entro i confini dello stesso sistema.

Cosa vuol dire organizzazione?

L’organizzazione in un sistema è rappresentata dall’insieme di relazioni (storiche e dinamiche) fra le sue componenti.

Le relazioni tra le componenti costituiscono un’unità.

Tali relazioni, inoltre, non devono variare, affinché si mantenga l’identità di quello stesso sistema.

Ma se in ogni sistema complesso la sua organizzazione non deve variare, cos’è che allora può variare?

Può variare la struttura di quel sistema.

E cosa vuol dire struttura?

La struttura in un sistema è rappresentata da quel particolare insieme di componenti e relazioni attuali, cioè limitate nel tempo, tramite le quali l'organizzazione del sistema si manifesta in un determinato ambiente.

 

19 - L’ambiente è il referente principale per la crescita e lo sviluppo di un sistema vivente. Per esempio: ammettiamo che in un determinato momento dall’ambiente provengano delle perturbazioni. In questo caso l’organizzazione di quel sistema vivente avrà come compito quello di compensare tali perturbazioni creando al suo interno tutta una serie di conoscenze atte a mantenere la sua identità di sistema. La sua struttura invece subirà un cambiamento, dato che aprendosi all’esterno, avrà tratto da quella perturbazione, da quello stimolo ambientale, una sorta di nutrimento energetico che garantirà un nuovo apprendimento.

Questo è ciò che si definisce come adattamento ambientale.

 

L’OSSERVATORE

 

20 - Possiamo considerare un sistema vivente come un osservatore, con una certa autonomia derivata dal fatto di essere lui l’unico responsabile del significato attribuito a ciò che osserva. Qualsiasi tipo di descrizione quindi, appartiene a una cornice di riferimento che è specifica dell’osservatore.

Anche una mappa allora, non è qualcosa che si rende improvvisamente visibile, ma è piuttosto qualcosa che l’osservatore riconosce.

I confini di una mappa non sono altro che la cornice di riferimento dell’osservatore, cioè il suo contesto. D’altra parte, (parafrasando Heidegger) il contesto di un osservatore non può essere altro che il suo essere in osservazione, quindi i confini di una mappa saranno anche i limiti, cioè la contingenza di quel determinato tipo di osservazione.

 

21 - Limiti umani ovviamente. Di conseguenza, qualsiasi funzione attribuita al sistema osservato corrisponde alle aspettative, al tipo di lettura e alle risorse di colui che osserva.

Qualsiasi giudizio relativo a ciò che si osserva risente dei limiti dell’osservazione e, lungi dal definire una volta per tutte il sistema osservato, definisce semmai i limiti dell’osservatore.

Riconoscere i confini di una mappa quindi, vuol dire, da una parte riconoscere un significato a quel percorso, ma vuol dire anche che bisogna sempre tener conto della provvisorietà del senso che gli è stato attribuito.

 

22 – Attenzione: anche quando si usano termini come sistema e sottosistema; non bisogna dimenticare che, così come non esistono confini naturali tra l’osservatore e il sistema osservato, allo stesso modo non esistono gerarchie naturali (per esempio, i sottosistemi). I confini e le gerarchie sono sempre stabilite da un osservatore.

E questo forse è il vero e unico confine naturale con cui un essere umano ha a che fare.

 

23 – E a proposito di confini e gerarchie: anche quando usiamo termini come giudizio e pregiudizio dobbiamo prestare attenzione. Per esempio, oggi la scuola fonda la propria legittimità su una sorta di delirio di onnipotenza, per cui il formatore si sente, in qualche modo, il depositario di certezze che il più delle volte sono invece solo pregiudizi. La cosa è aggravata inoltre dal fatto che si continua a considerare lo studente come un luogo neutro, come il probabile futuro portatore dei pregiudizi dell’insegnante.

Ma è vero anche che non è facile eliminare i pregiudizi. E d’altra parte, i pregiudizi sono un fattore importante, anzi portante, della personalità umana. Essi infatti, al pari della percezione, della sensibilità, della memoria e dell’esperienza contribuiscono alla creazione della conoscenza e il più delle volte è difficile distinguerli da ciò che comunemente si intende per cultura, visto che fanno parte della stessa sintesi armonica che è la cognizione di una persona.

 

24 - E tuttavia: perché imporre proprio certi pregiudizi piuttosto che altri? Perché imporre i propri pregiudizi?

Se i pregiudizi sono ineliminabili, bisogna imparare a considerarli come matrici costitutive della conoscenza e non, per esempio, come criteri per giustificare una discriminazione.

Conoscere non vuol dire solo sapere di più, vuol dire anche avere maggiore consapevolezza di ciò che non si sa, di ciò che va ancora esplorato; e i pregiudizi possono in questo senso servire come marcatori di un confine che è ancora da superare, (grazie, per esempio, ad ulteriori interrogativi).

 

25 - Non ha senso pretendere di porre gli allievi in un fantomatico luogo neutro, dal quale vedere il mondo come un oggetto inerte da sottoporre a osservazione. Forse sarebbe più produttivo mettere in relazione i pregiudizi dell’insegnante, quelli dello studente e il continuo mutare del contesto.

 

26 -  Il contesto è mobile. Esso mostra delle direzioni di senso che non sono del tutto predeterminate, anche se, in qualche modo, possono essere potenzialmente, ma solo potenzialmente, anticipate da un osservatore attento.

Ed è questo il punto.

Il problema dell’osservatore oggi appare sempre più decisivo. Il contesto, cioè l’ambiente e il comportamento, diventano sempre meno nozioni autoevidenti. Sempre meno ci sono fatti prefissati su cui poter applicare ancora una volta le stesse regole; inoltre le stesse regole non sempre portano a buone soluzioni.

Chiunque dia oggi anche un solo sguardo al contesto in cui vive, non può non sentire il bisogno di disporre di un metodo che gli renda possibile comprendere la molteplicità dei punti di vista, di un metodo cioè che gli dia la possibilità di riuscire a passare da un punto di vista all’altro produttivamente.

Purtroppo però, il più delle volte, passare da un punto di vista all’altro si riduce esclusivamente a una ricerca di problemi che corrispondano alle poche risposte di cui si ha già una soluzione. Tutto il resto viene scartato.

 

27 - Non si meravigli l’insegnante a cui nel prossimo futuro non verrà più richiesta la soluzione di un problema.

D’ora in avanti il suo ruolo non sarà tanto legato alla capacità di avere risposte certe e sempre valide, quanto piuttosto alla possibilità di riuscire ad organizzare connessioni nuove ogni qualvolta si verifichi un cambiamento.

Egli deve prima imparare e poi insegnare a non mutilare, a non censurare l’ambiguità, l’imprevedibilità, la complessità dei fenomeni.

 

28 - E’ vero, suona come una provocazione. Eppure oggi l’insegnante deve riuscire ad essere sempre più uno smantellatore di certezze; e deve tuttavia essere anche un creatore di connessioni, deve cioè riuscire a rendere produttive le tensioni che man mano si vengono a creare nel passaggio da una certezza ad un’incertezza, dal vecchio al nuovo.

 

29 - Al di là di tutte le riforme, rinnovare la scuola oggi deve voler dire soprattutto impegnarsi per lo sviluppo di un’intelligenza che dall’essere solo capacità di risolvere un problema, diventi anche capacità di essere sensibili ai contesti.

Naturalmente la scuola rimarrà sempre il luogo dove si pongono dei problemi da risolvere. E’ inevitabile e va anche bene. Ciò che semmai bisogna modificare sono le regole d’uso tutt’ora in funzione.

Pensiamo ai progetti di sperimentazione: per quanto raffinati e innovativi possano apparire, si fondano ancora su schemi organizzati in senso rigido. Se i programmi di tali progetti si dicono attenti, e in realtà prestano una maggiore attenzione ai mutamenti che avvengono nel campo delle scienze biologiche, chimiche, fisiche ed umane, tuttavia essi, in fin dei conti, non sono altro che nuovi modelli atti a fornire nuove risposte.

I nuovi modelli didattici, per essere veramente sensibili ai mutamenti, dovrebbero tener conto dell’essenziale imprevedibilità di ciò di ciò a cui si intende dare una risposta. In base a tale imprevedibilità ogni nuova risposta non sarebbe più solo un punto di arrivo, ma anche un nuovo punto di partenza. Sarebbe cioè già una nuova domanda.

 

 

IL TEMPO

 

30 - In che misura il tempo partecipa a un processo cognitivo?

Banalità di base: quando ci si trova a dover selezionare alcuni elementi di un problema, piuttosto che altri, per trovare una soluzione, il fatto richiede tempo; c’è bisogno cioè di tempo per attualizzare in successione più relazioni di quanto ne sarebbero possibili contemporaneamente. Maggiore sarà il tempo che si avrà a disposizione, maggiore sarà la possibilità di attuare una selezione più articolata tra gli elementi di quel sistema.

Seconda banalità di base: da una parte c’é il tempo dell’osservatore, il tempo dell’orologio, dall’altra il tempo universale della dinamica, il tempo costituito dall’accadere dei fenomeni: Il primo è inserito nel secondo e scorre insieme ad esso, in una sorta di temporalità incrociata di tipo multiplo proprio di un universo instabile (Prigogine).

Terza banalità di base: per l’uomo il tempo può fluire in una sola direzione; non esiste cioè una direzione che possa essere più o meno arbitrariamente scelta. Quindi, anche il suo modo di pensare, e di acquisire elementi significativi per arrivare a delle risposte, non può che risultare un omologo della dinamica del suo tempo, e perciò anch’esso di tipo lineare-progressivo.

In ogni caso, in ogni processo cognitivo il tempo ha principalmente la funzione di orientare il reale.

Cosa vuol dire?

 

31 - Sin dal Positivismo, e fino a pochi anni fa, si presumeva che il compito della scienza fosse quello di dare certezze. Il concetto di conoscenza implicava già questa idea di certezza insita nell’uomo, inteso come osservatore distaccato che descriveva l’universo in modo obiettivo, cioè appunto dall’esterno. In altre parole, si credeva che se si avessero avuto le conoscenze sufficienti delle condizioni iniziali di un qualsiasi sistema, si poteva facilmente predire ciò che sarebbe accaduto.

Naturalmente questa teoria non è del tutto errata. Per esempio, è vero che il funzionamento di un sistema vivente è predittivo. Da un certo punto di vista infatti, l’organizzazione di un sistema vivente è conservatrice in quanto tende a ripetere sempre ciò che funziona. Tuttavia, la peculiarità di un’organizzazione non è tanto la ripetizione, quanto la conservazione del sistema di riferimento, cioè il suo mantenimento.

Comunque, ritornando al concetto di conoscenza inteso in senso classico, ciò che c’è d’errato in quella teoria è sicuramente l’eccessiva sopravvalutazione della conoscenza delle condizioni iniziali del sistema osservato. Conoscendo tali condizioni è come se si conoscesse sia il sistema nel suo insieme, sia tutti i sistemi simili ad esso. E ciò non è possibile. 

 

32 - Nella fisica classica una traiettoria è eterna in quanto non comincia e non finisce ed è quindi illimitata nel tempo, cioè è a-temporale.

Nel campo della natura umana, per esempio, è la certezza ciò che non conosce il tempo; infatti, la certezza, cioè la linearità delle proprie idee, dei propri pre-concetti, è a-temporale, sopravvive al trascorrere del tempo.

Tuttavia noi abbiamo a che fare con un universo non lineare, cioè con un universo basato su degli avvenimenti e sull’incertezza del loro verificarsi. Un avvenimento, qualunque esso sia, è comunque qualcosa di limitato nel tempo: esso inizia e finisce.

La conoscenza delle condizioni iniziali allora, servono a ben poco se nel sistema osservato dovessero verificarsi delle perturbazioni, degli imprevisti; cosa tra l’altro tutt’altro che improbabile.

 

33 - Una perturbazione è ciò che più facilmente s’incontra lungo un percorso.

Il sistema di accoppiamento osservatore-sistema osservato tenderà a mantenersi stabile finché viene riconosciuta una reciproca coerenza. Quando però si verificano delle perturbazioni, delle interferenze, degli imprevisti, la relazione che aveva operato fino a quel momento viene a cadere. Sarà necessario allora predisporre un’altra relazione che corrisponda al mutamento avvenuto e che ristabilisca l’equilibrio in base a un nuovo tipo di adattamento.

La probabilità di incontrare una perturbazione cresce proporzionalmente all’allontanamento dalle condizioni iniziali di quel sistema.

Quale che sia la precisione con cui conosciamo le condizioni iniziali di un sistema, dopo un certo tempo ne perderemo la traiettoria, che varierà esponenzialmente.

C’é sempre un imprevisto tra ciò che ci attendiamo che accada e ciò che si va a realizzare.

E’ questa la caratteristica principale di ogni sistema dinamico instabile: ogni volta che lo si fa ripartire ci dà una risposta diversa. Noi possiamo predire solo delle probabilità, sapendo però che ogni singola realizzazione sarà diversa dall’altra.

 

 34 - I processi che si svolgono intorno a noi, inoltre, hanno sempre un inizio e una fine, sono limitati nel tempo e irreversibili. Essi hanno cioè una direzione del tempo che va dal passato verso il futuro e dove una causa deve precedere una conseguenza e non viceversa.

L’essere umano è un campione d’adattamento, sia biologico che sociale. Se la specie umana si è ambientata così bene è perché è capace di adeguarsi ad un ambiente mutevole. Ma, adeguarsi vuol dire anche agire: questa è la particolarità principale del nostro spirito, essa stessa causa e conseguenza dell’adattamento. L’uomo sente il bisogno di agire e reagire sull’ambiente in modo proiettivo e finalizzato, e per far questo ha bisogno di prevedere la conseguenza dei propri atti.

Percepire un tempo orientato, dove il futuro succede al passato e al presente, è una condizione indispensabile per dare finalità ai nostri atti. Ecco perché si affermava (31) che in ogni processo cognitivo il tempo ha come funzione principale quella di orientare il reale.

 

35 - Costruire una mappa implica soprattutto la capacità di selezionare e quindi di saper scegliere. Ma, decidere, per esempio, una certa relazione tra gli elementi di un sistema piuttosto che un‘altra, scegliere quale percorso seguire, adeguarsi ad un cambiamento, prendere comunque in genere delle decisioni, sono tutti momenti in cui il tempo, inteso come semplice durata, risulta inservibile.

Per esempio, la coscienza e la volontà sono, come si sa, due tra le funzioni principali dell’uomo; esse normalmente viaggiano associate e non a caso, infatti, il senso comune parla di coscienza volontaria.

Henri Atlan, medico, biologo e studioso dell’intelligenza artificiale, invece dissocia radicalmente queste due funzioni. Dopo di ché afferma che non ci può essere in noi un fenomeno di coscienza senza conoscenza (percettiva, intuitiva, intellettiva, ecc..). Ogni fenomeno di coscienza infatti implica la presenza di ciò che è conosciuto, la conoscenza quindi è la nostra memoria che si manifesta, in quanto l’unica conoscenza umanamente possibile è quella relativa al passato. In altre parole quindi, la coscienza è orientata verso il passato.

Viceversa, per quanto riguarda la volontà, egli afferma che quasi mai le cose che ci capitano sono quelle che avremmo voluto. In altre parole, ci accorgiamo che ciò che possiamo controllare è solo ciò che ci è noto e quindi, ancora, ciò che è cosciente; invece, ciò che quasi sempre si viene a realizzare fa parte di qualcosa che sembra sfuggire a ogni tipo di volontà cosciente.

Noi operiamo con tutto il nostro insieme, ma una parte di esso non è del tutto controllabile e in ogni caso è ignoto. Questa parte di noi non può essere conosciuta per il semplice motivo che si costituisce man mano che agisce, quindi è imprevedibile in quanto determinata dalle perturbazioni e dalle aggressioni contingenti dell’ambiente. Questa volontà, che Atlan chiama volontà incosciente visto che non può essere predeterminata e non sottostà a nessuna conoscenza stabilizzata, è orientata verso il futuro, che determina strada facendo adeguandosi alla circostanze, cioè auto-organizzandosi.

La memoria che rende presente il passato si verifica quindi nelle azioni coscienti e volontarie. La facoltà di auto-organizzazione, che è un processo di creazione e stabilizzazione della novità, costituisce invece il futuro: entrambe coesistono nello stesso sistema e contribuiscono alla costruzione di una mappa.

 

36 - Domanda: perché si ha la sensazione che l’uomo, nei confronti di un sistema di riferimento, si trovi sempre nell’impossibilità di realizzare pienamente il suo potenziale organizzativo?

La nozione di complessità pone l’uomo in una relazione diversa sia rispetto al mondo sia rispetto alle scienze classiche, che in alcuni casi risultano ora inservibili o comunque piuttosto obsolete.

Fino a un certo punto della sua storia, infatti, l’uomo, per ottenere una visione d’insieme in un sistema osservato, è stato abituato a sommare gli elementi che lo costituivano. Sommare equivaleva a realizzare un potenziale organizzativo.

Contando 1, 2, 3... e così via, si poteva arrivare al di là di qualunque numero prefissato, senza essere fermati da alcun ostacolo che fosse degno di questo nome. Questa era l’idea di infinito a cui l’uomo si era abituato.

Di positivo c’era che, tale idea di infinito elargiva un certo qual senso di potenza; essa era, infatti, la strada che conduceva verso l’affermazione del soggetto.

E’ vero che l’infinitezza faceva emergere dei limiti, tuttavia erano proprio quei limiti che inducevano l’Io al superamento, alla sua messa in gioco e ad un’idea forte di destino.

Insomma, ogni percorso era in qualche modo lineare ed esprimeva sempre la condizione di un essere che aveva una direzionalità temporale definita e il cui destino era lo sfondamento (più o meno letterale) dei suoi limiti, visti il più delle volte come una sorta di muri di recinzione.

Anche la metafora del deserto rientrava nello stesso tipo di produzione teorica. Infatti, per quanto esso designi una topica senza punti di riferimento (e quindi già più complessa), un terreno dove non è dato percepire a prima vista nessun tipo di traiettoria, né lineare, né circolare, ciononostante il soggetto era sempre al centro del discorso e, per quanto nomade potesse apparire, era sempre mettendo avanti un piede dietro l’altro che fondava il suo riconoscimento (debole o forte che fosse).

1, 2, 3... un passo dietro l’altro, si poteva arrivare al di là di qualunque limite, di qualunque fondamento. L’essere, cioè, aveva una sua pregnanza di tipo lineare-aritmetico il cui senso, il cui sapere, era dato dalla somma delle regole di comportamento, intese qust’ultime né più e né meno che come numeri primi. La sua esistenza si basava cioè su una semplice possibilità di poter superare i propri limiti ed acquisire conoscenza grazie ad un accumulo di tipo lineare.

La cosa non poteva durare più di tanto.

 

37 - Con lo sviluppo del linguaggio del computer e, più in generale, con lo sviluppo della trasmissione digitale come forma di comunicazione quotidiana, ha preso oramai piede una nuova affermazione che dice, per esempio, che tutti i numeri naturali sono pari o dispari; tale punto di vista porta a conseguenze notevoli sul modo di interpretare il mondo.

Infatti, tutti i numeri sono pari o dispari vuol dire che l’insieme dei numeri pari e l’insieme dei numeri dispari sono visti come oggetti interamente dati. Tale affermazione quindi, contiene in sé un infinito di tipo attuale, attuale nel senso che si sta attualizzando un evento, che si ha a che fare con un dato di fatto (tutti i numeri pari...) e non più con una possibilità.

Insomma, affermando che tutti i numeri sono pari o dispari, è come se il conto avesse già avuto termine.

In questo modo cambia il sistema di rappresentazione dei numeri, che si basa ora solo su due valori (pari e dispari, ma potrebbero essere convenzionalmente indicati anche come 0 e 1). Cambiando il sistema di rappresentazione numerico, cambia anche il sistema rappresentativo del mondo, per cui ora la conoscenza (ogni tipo di conoscenza) non può più essere definita in base a un semplice accumulo, bensì come prodotto di termini non più necessariamente consecutivi, ma ricorsivi.

 

38 - Cosa vuol dire ricorsivo?

Vuol dire che l’insieme degli eventi di un sistema, oppure uno stesso fenomeno, può avvenire ora contemporaneamente e a livelli diversi nello stesso sistema di riferimento (esempio, la parità nei numeri pari); tuttavia tali eventi ai vari livelli, hanno in particolare il fatto di non essere esattamente gli stessi (come, appunto, tutti i numeri pari).

Inoltre, anche se gli elementi costitutivi di un sistema dovessero seguire una progressione di tipo aritmetico, contemporaneamente le interazioni tra di essi avverranno invece tramite intersecazioni di tipo geometrico.

 

 

LE CONDIZIONI DELL’OSSERVATORE

 

39 - E l’uomo?

L’uomo è come se si trovasse in mezzo a due fuochi: da una parte la complessità dei sistemi, dall’altra la sua impreparazione, il suo essere per natura inattuale.

L’uomo è costretto, in una parola, ad attualizzare più relazioni di quante sia capace di reggerne, e per di più contemporaneamente.

La dinamica contemporanea descrive un universo instabile, un sistema in cui ciascun punto può andare in tutte le direzioni.

Una situazione di questo genere, ovviamente, sfugge ad ogni ordinamento per mete, fini o scopi che dir si voglia. Infatti, ogni volta che si raggiunge una meta, essa diventa il punto di partenza per qualcos’altro: più si va in profondità, più aumenta la complessità. Più ci si sforza di escludere il disordine e più non si fa altro che trasferirlo altrove.

 

40 - Per quanto l’uomo si sforzi, non riuscirà mai a raggiungere una formalizzazione e una strutturazione della conoscenza che sia in grado di tener conto di ogni elemento di un sistema di riferimento e della sua interdipendenza rispetto a tutti gli altri: credere in una possibilità del genere è pura follia.

Ma, forse anche follia è un termine inattuale, meglio sarebbe dire ignoranza. E non tanto l’ignoranza dovuta a una mancanza d’istruzioni per l’uso, quanto piuttosto nel senso di ignorare, di evitare, di rinviare.

L’uomo, per suoi limiti intrinseci, non può che evitare ogni idea di totalità; egli riesce ad avere a che fare solo con le singole parti di un sistema e, nello stesso tempo, preferisce ignorare il fatto di essere sempre in prima persona implicato nel sistema che osserva.

Preferisce ignorare, cioè, che non è più un osservatore che gode di una posizione trascendente nei confronti dei fenomeni, e che non ha nemmeno un’esistenza indipendente dalla realtà che osserva; egli è piuttosto parte dello stesso sistema di riferimento e ne determina la complessità al pari di tutti gli altri elementi, chimici o fisici che siano.

Anche il suo spazio temporale, scandito dalla progressione numerica 1, 2, 3..., è ormai inserito in “una pluralità di tempi, ognuno dei quali è legato agli altri con articolazioni sottili e multiple” (Prigogine).

Avendo a che fare con un sistema complesso i cui elementi non sono separati ma integrati l’un l’altro su più livelli, non si ha la capacità di cogliere gli eventi nell’insieme del loro accadere, dato appunto che essi accadono in condizioni e tempi umanamente incontenibili e che non sono né sommabili, né tantomeno mescolabili.

Per esempio: se si vuol far la prova di pensare due pensieri diversi contemporaneamente, ciò che si otterrà non sarà altro che un terzo pensiero, come prodotto che pensa che deve pensare due pensieri diversi.

Ecco così un buon esempio di cosa si intende per ricorsività.

Non si possono mescolare i pensieri, né tantomeno sommare: si possono invece combinare. In ogni caso, il risultato che si ottiene non ha niente a che fare con le informazioni iniziali di quel pensiero.

 

41 - Per attualizzare una situazione di complessità, cioè per poterla rappresentare, l’uomo è costretto a mettere in successione, nello stesso tempo, più eventi di un sistema, senza per questo riuscire a raggiungere un’interdipendenza completa di ogni elemento con tutti gli altri. Ciò che si riesce ad ottenere è direttamente proporzionale alla quantità di elementi che ne rimangono esclusi.

In una favola c’era una volta una volpe che desiderava dell’uva troppo in alto sul pergolato. Dopo tanti tentativi falliti, rinunciò alla scorpacciata dicendo a se stessa che l’uva era ancora troppo acerba. In questo modo, preferì rinviare piuttosto che ammettere i propri limiti.

Allo stesso modo, anche l’uomo cerca di recuperare ciò che rimane escluso alla sua conoscenza, trasformandolo parzialmente in rinvio.

Il conoscere deve essere sempre meno legato a qualcuno che, studiando un oggetto ne cerchi esclusivamente un rispecchiamento di ciò che già conosceva. La conoscenza piuttosto, è un continuo adattarsi alle riduzioni, ai rinvii e alle semplificazioni della mente.

 

42 - La conoscenza è una continua selezione di elementi per esclusione.

In qualche modo è come dire che nell’uomo il limite del suo tempo lo induce ancora di più a prendere tempo.

Creare una mappa, per esempio, vuol dire isolare alcuni elementi di un sistema, cioè selezionarli per ottenere un percorso significativo.

La stessa cosa, però, potrebbe essere detta anche in un altro modo: creare una mappa vuol dire rinviare gli elementi di un sistema che all’occhio dell’osservatore portano disordine, al fine di ottenere, per esclusione, un percorso significativo.

 

43 - Se per rendere possibile la condizione del conoscere si tende a isolare, a rinviare il disordine, ciò che invece non può essere isolato è proprio l’uomo. La sua esistenza come osservatore deve essere infatti concepita interamente all’interno del sistema di riferimento. Egli, pur mantenendo l’autonomia della propria organizzazione, è parte del processo in atto tra sé e lo stesso sistema di relazione.

Ogni linea di demarcazione che comunemente viene utilizzata per definire i confini, i limiti tra due qualsiasi organismi messi in relazione (per esempio: uomo/ambiente; osservatore/sistema osservato), in realtà non è altro che un canale di comunicazione grazie al quale la condotta del primo termine è per il secondo fonte di deformazioni compensabili grazie a un processo selettivo (se si vuole, anche in senso darwiniano).

 

44 - Ma, cosa vuol dire selezionare e cosa vuol dire rinviare? Che differenza c’è tra i due termini?

La differenza non è da poco. Il rinvio, infatti, implica (anche in termini) una sorta di arretramento nei confronti di una difficoltà, e contribuisce quindi a ripristinare l’errore che vuole l’osservatore situato in una posizione esterna al sistema che osserva; la selezione invece implica il fatto di avere una certa consapevolezza dei propri limiti.

La selezione non nega quelle stesse difficoltà, piuttosto è come una sorta di tattica che tende ad isolarle momentaneamente come presupposto indispensabile per rendere significativo un evento.

La selezione esprime meglio l’adattamento dell’uomo nei confronti del contesto in cui è inserito, e quindi nei confronti della complessità. Adattarsi vuol dire essere già parte del sistema di riferimento.

 

45 - In termodinamica, un sistema che possiede una certa quantità di ordine è sempre un sistema prevedibile. In esso, cioè, è possibile sapere cosa sta per avvenire ancor prima che avvenga. Ciò che funziona ora in quel sistema è ciò che funzionava anche prima: esso quindi, non farà altro che ripetere sempre ciò che funziona.

Un sistema di questo tipo si dice predittivo: un osservatore nei suoi confronti non avrà bisogno di fornirsi di alcuna mappa, dato che il percorso da seguire è già segnato dalla prevedibilità del sistema stesso, e dalla mancanza di perturbazioni provenienti da esso.

Nella realtà però si ha quasi sempre a che fare con sistemi che per loro natura, e per il loro livello di complessità, contengono un grado molto elevato di imprevedibilità.

Tale imprevedibilità è detta anche entropia.

Maggiore è l’entropia, maggiori saranno le perturbazioni che si riceveranno.

 

46 - Un sistema che possiede una buona organizzazione non può essere un sistema prevedibile, cioè a basso livello di perturbazioni. L’alto grado di perturbazioni determina, sia un aumento di varietà (di qualità) nel sistema stesso, sia un aumento dell’attività selettiva dell’osservatore, e quindi un miglioramento del suo dominio cognitivo.

Il dominio cognitivo dell’osservatore è il dominio di tutte le interazioni nel quale egli può entrare senza perdersi, senza cioè perdere in identità.

 

47 - Il tipo di osservazione che l’osservatore produce non può che essere di natura anamorfica.

Cosa vuol dire anamorfico?

Vuol dire che non esiste una visione esatta, assoluta del sistema osservato. Inoltre, dato che esso può essere osservato da molti punti di vista, ognuno di quei punti di vista avrà la capacità di determinare un dominio cognitivo differente.

In altri termini, ogni livello di comprensione del sistema osservato corrisponde ad un certo livello di conoscenza.

Una mappa, quindi, non sarà altro che un tipo di conoscenza, una condotta descrittiva, che esprime il dominio cognitivo dell’osservatore.

Una mappa cambia se cambia il contesto (le condizioni) in cui si produce l’osservazione.

Una mappa quindi, è una relazione tra l’osservatore e il sistema osservato e le sue proprietà dipendono da entrambi.

 

48 - Una mappa non ha proprietà intrinseche; essa è piuttosto il prodotto di una relazione tra l’osservatore e il sistema osservato, e ne esprime tutti i limiti.

Cosa vuol dire?

Una mappa, oltre ad essere una rappresentazione del dominio cognitivo dell’osservatore, è anche una rappresentazione dei limiti di quest’ultimo e del suo grado di incertezza.

Inoltre, una mappa può essere accettata solo in modo provvisorio. Potranno infatti sempre verificarsi delle condizioni (anche casuali) tali da far mutare la dinamica interna, sia del sistema osservato, sia dellosservatore. Quando ciò accede, il sistema osservato non sarà più il sistema di prima, dato che sarà cambiato il contesto e quindi anche lo scopo dell’osservazione.

La mappa di prima sarà oramai inutilizzabile e di conseguenza risulteranno inutilizzabili anche le connessioni, le scelte e le selezioni in base alle quali essa era stata definita.

All’osservatore non rimarrà altro che ricreare delle nuove relazioni che facciano coincidere di nuovo ciò che ora sta osservando, con la sua organizzazione interna.

 

49- Questo trovarsi ad un tratto in prossimità da ciò che è noto a ciò che è ignoto, questo passaggio, pur facendo parte del destino dell’uomo e dell’accoppiamento strutturale con il mondo in cui vive, tuttavia lo coglie sempre di sorpresa e sfugge al suo controllo. Eppure, se il passaggio sfugge al controllo, nello stesso tempo, in quel mutamento improvviso, si manifesta qualcosa, una sorta di verità, che allo stresso uomo finora era rimasta nascosta.

A questo proposito, viene spontaneo ricordare Heidegger. Per lui il noto e l’ignoto, la verità e l’errore, l’occultamento e il disvelamento, sono indissolubilmente legati nella loro essenza, e il continuo passaggio dall’uno all’altro mette in evidenza quanto sia illusorio per l’uomo il fermarsi in una di quelle oscillazioni. Come se da quel fermarsi potesse derivarne un qualunque statuto di fondatezza, come se in esso fosse custodita una forma originaria di verità. Ma, egli dice, l’unica verità è ciò che sempre e solo trascorre.

 

50 - E’ una ben strana verità quella che si manifesta proprio mentre muta.

A colui che osserva non rimane che la consapevolezza che non c’è niente che egli possa trattenere, che non c’è alcuna verità definitiva su cui fondare i propri passi.

Quando cambia il contesto, quando cambiano le circostanze che hanno reso attuabile una relazione tra osservatore e sistema osservato, non c’è alcun modo di prevedere quale nuova configurazione si verrà a creare.

Sia l’osservatore che il sistema osservato sono sistemi complessi, cioè sistemi con relazioni e interazioni multiple tra i loro elementi. Essi avranno quindi al loro interno, un grado talmente alto di imprevedibilità, da rendere del tutto improbabile la possibilità che il nuovo contesto abbia qualcosa a che fare con la configurazione che l’ha preceduto.

 

51 - Ciò che emerge nei sistemi complessi obbedisce sempre e solo alla regola della probabilità e mai della prevedibilità.

C’è sempre la possibilità che un certo fenomeno avvenga, tuttavia esso non è mai prevedibile.

Il grado di prevedibilità aumenta se si ha a che fare con un sistema fornito di scarsa complessità, cioè di scarsa autonomia.

 

 

PERTURBAZIONE

 

52 - Trovarsi in presenza da ciò che è noto a ciò che è ignoto, vuol dire anche avere a che fare improvvisamente con una perturbazione.

Però bisogna prestare attenzione a non usare il termine perturbazione in modo troppo letterale, altrimenti si corre il rischio di intenderlo come qualcosa che proviene (in senso dinamico) dal sistema osservato, come una sorta di rumore o di interferenza nel flusso delle informazioni che raggiungono l’osservatore.

Se è vero che le perturbazioni sono anche rumore (von Foerster), non è vero però che esse provengano dal sistema con cui si è in relazione. Le perturbazioni si generano piuttosto all’interno della relazione, dell’accoppiamento osservatore-sistema osservato, e denunciano che un certo aspetto di quella rete si trova in una situazione di non-ovvietà.

Le perturbazioni cioè, essendo delle interruzioni all’abituale esserci dell’uomo, mettono in luce ciò che nella sua pratica quotidiana egli ha sottovalutato: ciò che è rimasto irrisolto, il vero ordine di un problema su cui dover intervenire.

Inoltre, quella situazione di non-ovvietà (Winograd la chiama breakdown), oltre a denunciare la mancanza di qualcosa, cioè, per esempio, il nesso di relazioni necessario e più significativo da utilizzare per riuscire a muoversi all’interno del sistema di riferimento, mette alla prova la natura delle risorse umane e il grado di adattabilità dell’uomo nei confronti di una situazione di incertezza.

 

53 - Ma, non si può ricercare la soluzione adatta allo spazio di un determinato problema, finché non sia stato definito proprio lo spazio di quel problema. Una perturbazione serve proprio a questo: a rendere spaziale il problema; a dargli dei confini; a definirlo nel modo più chiaro possibile al fine dell’intervento più idoneo.

Tuttavia, una situazione di incertezza non è quasi mai causata da una perturbazione, per il semplice motivo che, quando si è in presenza di quest’ultima, l’incertezza è già passata; oramai la perturbazione è avvenuta (di ciò si è certi), e l’unica cosa che all’uomo rimane da fare è cercare di adattarsi ad essa, intervenendo secondo le sue risorse.

Una situazione di incertezza è causata dal fatto di non sapere, né quando la perturbazione si verificherà, né quale sarà la sua natura. La possibilità di prevederla sfugge al controllo. L’improvviso passaggio da un contesto all’altro, l’aumento di entropia (45), tutto ciò avviene indipendentemente dalla volontà dell’uomo.

 

54 - Per quanto l’uomo senta il bisogno di accertarsi che ogni cosa che lo circonda sia dotato di senso, tuttavia, qualche volta, questa capacità di comprendere (e quindi di comprendersi) sembra impedita da un limite invalicabile.

“L’essere è un progetto gettato”, dice Heidegger, è gettato all’interno di suoi limiti.

Strano limite in verità: se a prima vista esso sembra rappresentare l’orizzonte aperto alle possibilità dell’uomo (da cui il significato di essere che si progetta), in realtà però sembra proprio che tale orizzonte sia aperto solo per entrare e non per uscire.

L’esserci, cioè la possibilità di scegliere ciò che si è, può avvenire quindi solo all’interno dell’esistenza in cui l’uomo è gettato.

Comprendere ciò che si è, è sempre meno un autopro-gettarsi e sempre più un sapere di non essere padrone di se stessi, ma di trovarsi in mezzo a ciò che avviene e quindi di doversi accettare là dove ci si trova.

In definitiva quindi, una perturbazione non si può evitare, piuttosto è qualcosa della cui possibilità bisogna essere consapevoli. Anch’essa fa parte della natura e del destino dell’uomo.

 

55 - Ogni modificazione che avviene in un sistema a causa di una perturbazione, deve essere considerata irreversibile.

In altre parole, se una perturbazione sottolinea l’ampiezza di un determinato problema, e fa emergere la modificazione avvenuta, compito dell’uomo (osservatore) sarà quello di ristabilire l’equilibrio mancante tra sé e quel sistema di riferimento. Tuttavia, ristabilire un equilibrio non vuol dire ricostruire in qualche modo una situazione perduta.

La presenza di una perturbazione è segno che sta avvenendo una certa evoluzione nel sistema di relazioni. L’osservatore deve ora scegliere la rete di connessioni più adatta al nuovo livello raggiunto dal sistema.

Adeguarsi a una perturbazione corrisponde quindi ad un’evoluzione delle capacità cognitive dell’osservatore.

 

56 - Una perturbazione non deve essere vista come qualcosa di pericoloso o dannoso.

Anzi, esistendo solo all’interno del rapporto osservatore-sistema osservato, essa evidenzia, da una parte i limiti di tale osservazione, ma soprattutto stimola la necessità di adattarsi al cambiamento.

 

57 - Generalmente si dice che una buona capacità cognitiva consiste nell’agire appropriatamente al fine di ricercare le soluzioni adatte in un contesto di non- prevedibilità, cioè in una situazione d’incertezza.

Ciò, tuttavia, non vuol dire che si possa scegliere un comportamento appropriato ancor prima che insorga una perturbazione. La cosa non avrebbe senso. E non solo perché è praticamente impossibile evitare una perturbazione progettando in anticipo un qualche tipo di intervento, ma soprattutto perché sarebbe fuori luogo progettare qualcosa che eviti una perturbazione, visto che è proprio grazie ad essa, grazie cioè agli stimoli che da essa provengono, che si sviluppa nell’osservatore quel meccanismo di ricerca, di comprensione e di adattamento al nuovo che determineranno la sua crescita cognitiva.

 

58 - Mettiamo che un osservatore si sia fornito di una mappa per intervenire in modo adeguato in una situazione d’incertezza. Costui dunque, momentaneamente, è riuscito a diminuire la sua ignoranza.

Solo momentaneamente però. Infatti, man mano che il tempo passa, lo stato in cui si trova il sistema si allontanerà dal punto in cui era stato rappresentato.

Se quell’osservatore, dopo un pò, tentasse di rappresentarsi quello stesso sistema grazie alle coordinate e al significato che gli aveva attribuito precedentemente, molto probabilmente non lo riconoscerebbe più.

Cos’è accaduto?

E’ accaduto che, man mano che il tempo è passato, i punti compatibili con le condizioni iniziali non sono rimasti immobili (secondo principio della termodinamica); essi piuttosto hanno dato luogo a traiettorie che si sono allontanate sempre più dalla regione in cui erano stati costretti. Il significato che era stato dato al sistema osservato, e di conseguenza quella mappa che lo rappresentava, ha perso irrimediabilmente ogni sua pertinenza. Il sistema è ora di nuovo in equilibrio (termodinamico), dato che ha sconfinato i limiti che l’osservatore gli aveva assegnato, ed ora può trovarsi in ogni punto dello spazio.

 

59 - Per l’osservatore, il fatto stesso di non riuscire più a distinguere i confini della sua mappa dallo sfondo in cui era inserita, è già di per sé causa di una nuova perturbazione. Ciò che gli resta da fare, quindi, è cercare di utilizzare le differenze che ora percepisce rispetto a prima, e in base ad esse costruire una nuova localizzazione (cioè nuove strategie) che ristabiliscano l’adattamento.

Va da sé comunque che, ogni volta che un osservatore ha a che fare con una situazione complessa, ne analizza e ne definisce le proprietà dal suo punto di vista, che è un punto di vista limitato.

Quando nel tracciare una mappa egli si trova in prossimità di un bivio, di una biforcazione (che può anche essere multipla), sceglierà una sola di quelle direzioni, escludendo le altre.

Questa esclusione però, non vuol dire che tutte le direzioni siano errate tranne quella scelta. Non vuol dire che esse siano inutili o che non conducano in alcun posto o verso connessioni ugualmente importanti. Significa solo che la scelta è stata fatta sulla base delle condizioni contingenti alla dinamica interna dell’osservatore, cioè, in una parola, in base a limitati modelli di riferimento oltre che, naturalmente, in base alla qualità della perturbazione ricevuta.

I percorsi esclusi, se fossero stati scelti, avrebbero condotto verso altre connessioni, ugualmente significative e ugualmente articolate e avrebbero contribuito a determinare un altro tipo di accoppiamento strutturale.

Ma, essi non sono stati scelti dato che erano come nascosti alla vista.

 

60 – E a proposito di nascondimento alla vista, viene in mente Heidegger quando parla di “nebulosità della vita”.

Che la vita sia nebulosa non vuol dire semplicemente che la vista dell’osservatore sia sempre offuscata; vuol dire piuttosto che è la vita stessa a realizzarsi, sia tendendo a conoscere nella chiarezza, sia nascondendosi nell’oscurità.

In questo senso allora, ogni atto cognitivo non deve essere inteso come uno strappare dal suo nascondimento ciò che non è evidente, come in una rapina, l’atto del conoscere piuttosto, deve portare con sé la consapevolezza che ogni verità messa in luce rischia, prima o poi, di risprofondare nell’oscurità. Ogni volta che l’uomo crede di aver scoperto una verità, c’è sempre una non-verità che le fa da contrappeso.

Egli deve essere consapevole di questo limite, così profondamente umano, ogni volta che si trova di fronte ad una scelta. Ogni volta che all’uomo si apre una possibilità, si può star certi che in quel preciso istante se ne stanno chiudendo altre.

 

61 - Tutto ciò sembra suonare, in qualche modo, come una critica fin troppo sbrigativa a quello che viene normalmente definito come il pensiero calcolante della nostra epoca. Una critica cioè, verso quel pensiero (purtroppo dilagante) che cerca di impostare il futuro dell’umanità in base a una pianificazione e a una tendenziale riduzione di tutto a fondamento; come se dall’irrigidimento di ogni rappresentazione potesse derivare una verità inamovibile, sempre disponibile, facilmente valutabile e manipolabile, e quindi fatta a uso e consumo di questa società dello spettacolo.

Critica giusta, in verità, se però si tiene conto di un fatto: e cioè che il pensiero calcolante, piaccia o no, fa parte della natura dell’uomo, nel senso che esso esprime, sia la necessità di pensare, sia il limite di tale modo di pensare. In un certo senso, quindi, esso risulta essenziale oltre che inevitabile.

Così come risulta inevitabile, per un osservatore, cercare ogni volta di superare i propri limiti, o quantomeno di definirli, fornendosi di una mappa che sia sempre disponibile e facilmente consultabile. Semmai l’errore consiste nell’illusione che possa esisterne una che sia immune al destino di obsolescenza che invece le è proprio.

 

62- Ma anche in questo caso, più che di un errore si tratta di un gioco che l’uomo fa con se stesso: sperare di saper dominare la prossima e inevitabile perturbazione, essendo consapevole di non poter fare completo affidamento sulle sue capacità di controllo, su processi che non sono del tutto calcolabili.

In questa sfida egli, in quanto osservatore, si espone tanto quanto ciò che osserva e, nello stesso tempo, al pari di ciò che osserva, è sempre qualcosa in più di ciò che semplicemente appare alla vista. Infatti, il suo modo di osservare produce pensiero; ed è il suo pensiero che si espone, e che esponendosi apprende.

Ma, se fa parte della natura umana percepire come sfida ciò che sfugge alla vista, ciò che si nasconde, questo però non vuol dire che il destino dell’uomo sia sempre quello di stare in mezzo ad una sfida, in senso agonistico e che, oltretutto, il più delle volte non può scegliere.

Stare in mezzo” dovrebbe, invece, essere inteso come: “essere in accordo”(Heidegger), come un far parte, cioè, dell’accoppiamento strutturale con il mondo in cui si è collocati.

 

63 - Viviamo in un universo che non è in equilibrio. Tuttavia, è proprio lontano dall’equilibrio che noi cominciamo a percepire il nostro ambiente e a distinguerne le differenze che in una situazione di equilibrio non avrebbero avuto significato.

Distinguere le differenze quindi, accorgersi cioè che una parte del sistema di riferimento è in ritardo, vuol dire anche iniziare ad usare tali differenze per produrre differenti relazioni tra noi e il mondo.

Domanda: come si situa la scuola rispetto a questa evidenza?

Il più delle volte, essa è ancora il luogo dove l’esperienza si fonda su norme e interpretazioni confezionate in modo tale da poterne sempre riprodurre l’uso in maniera statica.

Davanti a una caduta di stabilità quindi, si preferisce considerare tutto ciò che contrasta con i modelli acquisiti, come un errore da eliminare.

La scuola, ovviamente, è sempre vista come luogo d’apprendimento, come il ricettacolo del sapere (da trasmettere da una generazione all’altra). Ma forse bisognerebbe iniziare a riflettere su un’evidenza, e cioè che, per quanto grande possa essere, un ricettacolo avrà sempre dei limiti, dei confini che stabiliscono una separazione tra un dentro e un fuori, grazie ai quali poter attuare un maggior controllo.

I confini esistono quando, per qualche motivo, si vuole ignorare ciò che sta fuori. E allo stesso modo, ogni controllo si fa più stringente là dove maggiore è la possibilità che qualcosa sfugga.

 

64 - Insegnare, così come imparare, vuol dire mettere a confronto teorie con altre teorie, luoghi d’osservazione con altri con altri luoghi d’osservazione.

Ma, bisogna essere profondamente consapevoli che non esiste un luogo teorico dove vengono elaborati dei concetti che poi saranno attivati in un luogo pratico.

L’apprendimento avviene nel luogo e nel momento preciso dove si sta costruendo un certo tipo di rapporto (un accoppiamento strutturale, 16).

Bateson affermava che una delle difficoltà più grandi legate all’insegnamento è la paura di partire ad esplorare. Tuttavia i tempi sono maturi per prendere una decisione.

E tanto più, forse, vale la pena tentare, visto che la decisione da prendere non consiste tanto nello scegliere tra una certezza e un’incertezza, ma tra incertezze diverse.

            Pino Iannello ‘03

e-mail: pinoiannello@virgilio.it

                                                                                      

 

L'Autore

Il prof. Pino Iannello, nato a Ragusa nel 1954, insegna Pedagogia e Psicologia presso l'"Erasmo da Rotterdam" di Bollate (Milano).  

Ad oggi ha pubblicato:

“La notte dei morti viventi” e “l’iperpartecipazione ovvero: il madre della simulazione” in Cthulu, Ragusa, La Fiaccola, 1979.

Cronache dal Deserto, Ragusa, Ed. Ipazia, 1980.

L’introduzione a “Cristo sotto una luce psicopatologica”, Oscar Panizza, Ragusa, Ed.Ipazia, 1986.

Prefazione a “Non è facile neanche fare un buon caffè”, Angelo Massari, Ragusa, ed.Sicilia punto L, 1992.

Il Dilettevole Gioco dell’Oca, Milano, Ed. Mimesis, 1999.

Troppo di Niente, Milano, Ed. Mimesis, 2001.

Negli anni ’80 ha collaborato alla rivista A/traverso edita a Bologna.

 

Il suo indirizzo e-mail è: pinoiannello@virgilio.it

 

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Ultimo aggiornamento: 21 giugno 2011