La seconda metà del ‘700 segna il punto di passaggio
epocale della civiltà europea moderna e l’origine di tutte le
problematiche del mondo di oggi. In quel periodo si ha infatti
l’affermazione della borghesia, col conseguente declino dell’aristocrazia,
il sorgere della civiltà industriale e del capitalismo. I due eventi
fondamentali sono costituiti dalla rivoluzione francese e dalla cosiddetta
rivoluzione industriale. Approfondire le tematiche collegate a
quest’ultima permette di avere una visione più ragionata e consapevole
della nostra vita quotidiana.
La borghesia aveva iniziato ad
affermarsi in Inghilterra sin dalla seconda metà del ‘600, grazie
all’affrancamento dell’agricoltura dagli usi e dai rapporti feudali e
grazie allo sviluppo di un ceto mercantile sempre più benestante per il
commercio con le colonie. Ma tutto ciò avrebbe avuto un effetto meno
dirompente senza le dottrine delle Chiese Protestanti, che avevano esteso
alla ricchezza la dignità sociale un tempo esclusiva della nobiltà.
E’ così che, aumentando la percentuale di possessori di un
“capitale”, diviene necessario adoperarsi per accrescerlo, pena
l’esclusione dal ceto privilegiato della borghesia benestante. Si inizia
così a pensare di investire il capitale nella produzione di beni di
consumo e, per accrescerlo, ne deriva che occorre diminuire i costi di
produzione, ampliare i mercati per la vendita dei prodotti, diminuire il
costo delle materie prime: nasce l’industria cotoniera inglese. Parole
d’ordine: innovazione tecnologica, prodotti economici, materie prime a
basso costo.
Perché l’industria cotoniera? Il
cotone era più economico della lana (materie prime), più facilmente
lavorabile con metodi industriali (innovazione tecnologica) con
conseguente diminuzione del costo del prodotto finito (maggior mercato).
Legato allo sviluppo dell’industria cotoniera c’è il
progressivo aumento della tratta degli schiavi dall’Africa, in modo da
aver mano d’opera gratuita per le coltivazioni americane di cotone;
conseguenza di ciò: il crollo dell’economia indiana, basata in gran parte
proprio sulla coltivazione del cotone (imposta dalla Compagnia delle Indie
con metodi alquanto…persuasivi).
Ecco quindi l’origine di alcuni dei maggiori problemi
irrisolti di oggi: estrema povertà dei paesi africani soggetti al prelievo
di schiavi, crollo dell’economia indiana (che non si è più risollevata),
problema dei neri negli USA.
In concomitanza con l’industria tessile, dopo l’invenzione
della macchina a vapore, si sviluppa l’industria siderurgica con la
necessità di reperire ben altre materie prime a buon mercato (carbone,
ferro ed altri minerali). La politica colonialista, dell’Inghilterra e
delle altre nazioni europee industrialmente avanzate, deriva da questa
necessità.
Nel frattempo anche il panorama sociale dell’Inghilterra
cambia rapidamente: da una vita rurale e autosufficiente (pur se a
livelli, spesso, di sussistenza), si passa alla nascita di agglomerati
urbani, malsani e privi di servizi, intorno alle fabbriche nascenti; le
condizioni di vita dei lavoratori e delle famiglie estremamente misere
favoriscono lo sviluppo del pensiero marxista.
Il marxismo non mette in dubbio la bontà del processo
industriale, intervenendo solamente sulla redistribuzione economica dei
profitti: crescita economica e sviluppo industriale rimangono la base
dell’idea di progresso. Anche il capitale, pur diventando capitale di
Stato, rimane il motore dell’economia.
A questa idea di progresso si affianca, sia in campo
capitalista che marxista, il pensiero positivista, che vede nella scienza
e nello sviluppo tecnologico la via per il benessere sociale.
Tutto il resto lo conosciamo: affermazione globale del
capitalismo e dei suoi principi, concetto di benessere legato solo a dati
economici, industrialismo diffuso (spesso “selvaggio”), depauperamento
delle materie prime, problemi ecologici sempre più diffusi, perdita
dell’identità culturale…e così via.
Certamente esistono risvolti positivi, principalmente dal
punto di vista della salute umana e nel campo sociale (sviluppo
democratico, minor discriminazione femminile). Però le “crisi” del nostro
tempo derivano sempre dal concetto di progresso legato allo sviluppo
industriale: la crisi energetica non è altro che la necessità di
accaparrarsi il controllo delle materie prime e da questa esigenza deriva
l’attuale “scontro delle civiltà”.
Il problema ambientale (totalmente sottostimato, in quanto
si oppone ai principi capitalisti) assume caratteristiche sempre più
drammatiche via via che anche i paesi asiatici si sviluppano con gli
stessi criteri dell’Europa ottocentesca.
Il crollo del comunismo non ha minimamente influito sul
percorso indicato, dato che, come già detto, in realtà ne era totalmente
partecipe.
A questo cammino ben pochi movimenti hanno provato ad
opporsi; a parte i Luddisti di inizio ‘800 (che, pur nella loro ingenuità,
avevano, però, individuato nelle macchine e nel loro uso irrazionale il
problema), indicherei il movimento Gandhiano (purtroppo finito con la
morte del Mahatma), quello Hippie e quello ambientalista degli anni ’70.
Forse anche il movimento cooperativo aveva in origine un recupero dei
valori necessari ad opporsi alla filosofia imperante: solidarietà, piccoli
gruppi, principi di mantenimento economico e non di crescita. Sappiamo
come è finita…
Oggi non è rimasto quasi nulla; gran parte delle energie
creative sono confluite nella new age (che in realtà non mette affatto in
discussione il sistema sociale ed economico, rivolgendosi ad un ipotetico
benessere individuale che dovrebbe provenire da pratiche più o meno
esoteriche) o nel movimento no-global (in Italia anch’esso in gran parte
inserito nelle attuali logiche produttive, al limite da “limare”). Gli
unici tentativi che mi vengono in mente sono quelli di alcuni piccoli
movimenti di base, come per esempio i GAS (gruppi di acquisto solidale) o
la Rete Lilliput.
Sentivo l’esigenza di esporre queste idee; non ho
suggerimenti, tranne tentare di sviluppare attenzione e consapevolezza
individuali, però forse qualcosa andrebbe fatto…
Cosimo Alberto Russo
marzo 2006