Studenti capaci e studenti incapaci

Su Insegnare e apprendere Impedimenti ad una vera riflessione Studenti capaci e studenti incapaci Competenze e È possibile migliorare la creatività e la riflessività dei ragazzi studiare e connettere Studiare aiuta a pensare? Creatività e riflessività

 

 

Studenti capaci e studenti incapaci

di Giuseppe Tidona

 

Introduzione

Il termine "capacità" è parecchio usato nel mondo della scuola. Esso compare sia nelle circolari ministeriali, sia nel linguaggio dei docenti, anche in quei documenti da loro prodotti che hanno il crisma dell'ufficialità (anzi, a maggior ragione, in essi). Si pensi ad espressioni ricorrenti del tipo: "Lo studente presenta capacità appena sufficienti", ai tanti giudizi finali i quali affermano che "Per quanto la discente si sia impegnata, le sue limitate capacità non le hanno consentito di raggiungere risultati migliori", o ancora a frasi fatte come "L'alunno, in forza di un impegno ridotto e di capacità al di sotto della norma, non ha potuto conseguire voti più alti". D'altronde, da alcuni anni la triade sapere, sapere essere e sapere fare è entrata prepotentemente nel mondo della scuola, introdottavi attraverso le circolari del Ministero della Pubblica Istruzione. E la suddetta terminologia è stata un modo accattivante di riferirsi alle conoscenze, alle capacità ed alle competenze. Nel presente contesto mi interessa, comunque, discutere esclusivamente il secondo concetto.

 

PARTE I

 

Le capacità

 

Il termine "capacità", per quanto utilizzato in situazioni così importanti, non è stato, però, mai definito in maniera incontrovertibile. A leggere i giudizi sopra riportati (ne ho riportato solo alcuni negativi, in quanto, oltre ad essere, secondo la mia esperienza, molto diffusi, sono anche i….più graffianti), si ha l'impressione che essi siano un modo elegante per dire che ci troviamo di fronte…ad un cretino (oppure cretina) o quasi. E questo io credo sia stato il significato tacito, intrinseco, anche se mai asserito esplicitamente in una misura così deflagrante, assegnato al termine da parte del sentire comune dei docenti. Il termine "capacità" è stato sinonimo, pertanto, di "intelligenza".

E' vero, noi possiamo andare a spulciare le definizioni date dalle enciclopedie, dai vari dizionari, ed essi possono anche indicare direzioni parzialmente o completamente differenti rispetto a quella che è la percezione comune. Ad es. uno di questi testi stabilisce che la capacità "può essere definita [.…] come la possibilità di riuscita nell'esecuzione di un compito [….]. Essa richiede intelligenza, scienza ed abitudine, ma è sottoposta a forti condizionamenti di tipo culturale, affettivo ed educativo."1 In questa delucidazione troviamo ad es., accanto all'intelligenza, un accenno ad altri fattori, anche se non è chiaro quale sia il peso dell'intelligenza e se essa sia da intendersi in senso naturalistico, innatistico come una quantità fissa oppure in un'altra maniera.

Un altro testo ancora asserisce che la capacità è "l'idoneità del soggetto a fare qualche cosa. [….] L'educazione tende sempre a formare delle capacità facendo leva su quelle che sono le potenzialità [….] ossia le energie, le disponibilità e le possibilità latenti dell'individuo.2". Ma anche qui sorge un dubbio: nella prima parte della frase sembra che la capacità sia un punto di arrivo, che venga formata, ma poi viene posta in relazione alle energie, alle disponibilità ed alle possibilità latenti dell'individuo e a questo punto non è del tutto chiaro se le risorse siano date alla nascita, se siano qualcosa di prestabilito o, al contrario, di variabile.

 

Capacità e luoghi comuni

 

Ma anche quando queste precisazioni dotte fossero chiarissime e prive di ogni equivoco, pur se si riuscisse a stabilire (ed invece abbiamo visto che le definizioni dei cosiddetti "esperti" lasciano irrisolti molti quesiti) che, ad es., "capacità limitate" non è un'espressione offensiva, perché ha a che fare con una condizione storica, per sua natura mutabile, dette precisazioni comunque restano….sui libri e non diventano moneta comune, non hanno nessuna reale efficacia. I luoghi comuni sono purtroppo spesso più forti di ogni precisazione scientifica.

Da una piccola inchiesta svolta con alcuni studenti, è risultato che l'immagine più comune associata alla nozione di capacità è quella di contenitore (diciamo…un contenitore per l'acqua, come "visualizzano" più comunemente gli alunni, che ha una certa capienza e che può ricevere un certo numero di litri di liquido, essendo i litri i concetti che chi impara può assorbire). Chiaramente se ti ritrovi con un certo contenitore, ben poco puoi fare per modificarlo, ampliarlo, ecc.; quindi la nozione di capacità come datità è abbastanza diffusa anche tra i discenti, pur se ad un livello meno sofisticato che tra i docenti.

 

Capacità ed abilità

 

A dire il vero, nella letteratura scientifica in lingua italiana si parla anche di abilità intellettuali oltre che di capacità. Alcuni studiosi usano i due termini come se fossero sinonimi, in altri autori sono, invece, presenti tratti di una sottolineatura differente: il termine abilità è un vocabolo, allora, più pratico, che comporta come una traduzione delle astratte capacità nella concreta realtà, la dimostrazione di un sapere eseguire alcune operazioni mentali in maniera corretta, il compiere, ad es., in modo ostensivo, passaggi logici con padronanza e sicurezza.

A questo punto è necessario precisare che quando si parla di operazioni intellettuali e del loro studio, ci si riferisce in particolare alla disamina di quelle attività poste in essere nelle situazioni sperimentali, sviluppate, cioè, quando le persone si trovano a rispondere alla varietà di domande strutturate inserite in test (ad es. quelle che misurano il quoziente intellettivo - o QI). Le domande del tipo sopra indicato, comunque, impegnano aree mentali differenti, non essendo tutte delle stesso tipo. Sono molto più rari gli studi sulle abilità di soggetti impegnati in compiti reali, cioè di vita, in mansioni vere, quelle abituali che tutti noi in un modo o nell'altro ci troviamo ad affrontare. Esse sono così complesse, spesso così confuse, che risulta molto più difficile ed impegnativo analizzarle.

Comunque sia, a questo punto sorge una questione differente: se il termine abilità ha sfumature differenti rispetto a quello di capacità, sulla base di quello che è possibile evincere dalle affermazioni di alcuni studiosi- vedi appunto l'accenno di prima-, come è possibile, allora, misurare in una qualsiasi situazione concreta (sia essa sperimentale del tipo di quella sopra descritta o di altro genere) le capacità (ovverosia l'intelligenza che è diventato spesso, come termine, un suo sinonimo)? Non dovrebbe essa, invece, essere la massima possibilità, la potenzialità pura? Visto che in ogni contesto concreto c'è sempre una componente di esecuzione, un che anche di appreso, di storicamente determinato, non rischiamo di esaminare altro? Ma, se c'è un che di appreso, anche poco, perché non pensare che il soggetto possa continuare ad apprendere e quindi migliorare se stesso e le sue prestazioni? Ed allora stiamo veramente misurando le capacità, cioè il massimo che il soggetto può dare?

Alle obiezioni di sopra normalmente si risponde che i test di intelligenza e tutti gli altri test che valutano abilità o capacità intellettive, sono strutturati in modo tale da misurare non una qualsiasi resa, ma la resa massima possibile del soggetto, quindi sono in grado di testare le sue potenzialità. Quello che non è possibile evincere nei compiti normali (cioè le possibilità mentali pure di un soggetto), sarebbe invece possibile determinare in una situazione forzatamente artificiosa quale quella presentata dai test tipo QI. Eventuali cambiamenti di natura storica, evolutivi del soggetto in esame, che nessuno ha l'ardire di negare che possano esistere, si dice che comunque vanno riferiti alla norma, al parallelo modificarsi del gruppo di riferimento (con riguardo all'età o, anche, ad altri fattori di riferimento comuni presi in considerazione). Per cui si pensa che il loro peso perda automaticamente di importanza, se noi assumiamo un punto di vista relativo, di confronto con la popolazione in generale.

Qui non voglio discutere la bontà delle asserzioni sopra riportate, se esse rispondano o no effettivamente alle obiezioni di chi ha dubbi che i test riescano a misurare le potenzialità dei soggetti, quanto piuttosto ritornare al tema centrale: la diversità intellettiva tra le persone, quale ognuno può osservare tutti i giorni.

 

La diversità di capacità tra le persone: i componenti cognitivi.

 

In modo particolare gli insegnanti, come s'è visto, sono nella posizione ideale per studiare ed esaminare le differenze; ed, infatti, essi le osservano quotidianamente, perché i compiti scolastici sono particolarmente adatti a far risaltare ciò che diversifica uno studente dall'altro. Ma che cosa determina queste divaricazioni?

Nella ricerca cognitivista (soprattutto americana) le differenze di capacità (o abilità intellettuali, che dir si voglia) sono definite in termini di differenze nei processi elementari che caratterizzerebbero le operazioni intellettuali. Molti studiosi preferiscono frazionare così attività globali e complesse come quelle intellettive in costituenti elementari, nella speranza che dalla loro disamina possa nascere la spiegazione di quelle diversità nei ragazzi che tutti osserviamo, diversità che sarebbe difficile spiegare, questi psicologi asseriscono, se esse venissero esaminate olisticamente.

Dall'analisi dei componenti cognitivi necessari per affrontare compiti del tipo sopra accennato, alcuni affermano che sarebbe emersa, ad es., innanzitutto l'importanza della memoria di lavoro3.

Per capire che cos'è la memoria di lavoro è necessario sapere che uno dei modelli più utilizzati nella psicologia contemporanea è quello dell'informazione processing. Ovvero l'immagine del computer è diventata paradigma del funzionamento mentale. Cosa fa un computer quando elabora dati? Fa lavorare il suo processore accanto ad una memoria di lavoro dove esso temporaneamente deposita i dati che magari riprenderà più tardi, in una fase successiva dell'elaborazione, quando ne avrà bisogno. La memoria di lavoro è una memoria di breve durata, ed, infatti, quando il computer viene spento, essa si cancella.

Allo stesso modo la memoria di lavoro nell'uomo ha una breve durata (ad essa, infatti, si contrappone la memoria di lunga durata). La capacità della memoria di lavoro viene definita come la capacità di operare con molti elementi contemporaneamente. Di tenerli, cioè, tutti a mente contemporaneamente senza dimenticarne alcuni. Si pensi ai compiti di completamento di serie nel campo delle figure. Dato un gruppo di figure che viene assegnato come legato da una struttura in comune, bisogna trovare in un secondo insieme la figura che completi l'insieme precedente. Ebbene, quando gli elementi che legano le figure, che possiamo indicare come della prima serie, sono più di uno, cioè sono come sovrapposti, trovare la figura corretta nella serie successiva può effettivamente richiedere uno sforzo di memoria. L'individuo può, insomma, essere impegnato ai limiti delle sue possibilità, in quanto è facile farsi sfuggire dei dettagli, non ricordarli o confondersi, quando bisogna tenerne immagazzinati tanti.

Un secondo componente sarebbe rappresentato dal tipo di organizzazione della conoscenza4 di cui si è in possesso; chi possiede una migliore cornice entro cui razionalmente sistemare concetti e contenuti conoscitivi chiaramente si trova in vantaggio. Una persona che abbia una valida struttura di riferimento può insomma accedere alle nozioni più facilmente. Sternberg5 ha, per esempio, sottolineato l'importanza della cosiddetta fase della codificazione delle informazioni, delicata ed importante proprio ai fini di un recupero successivo. L'efficace codificazione comporta normalmente anche il confrontare, il relazionare il nuovo concetto con la base cognitiva esistente, quella che può fungere da area di pertinenza, di ancoraggio per così dire, ed un'efficiente combinazione delle due zone, cioè una fusione di vecchio e nuovo.

Altri ancora si riferiscono alla velocità di accesso alle informazioni ed alla celerità nel loro recupero, come fattore importante di differenza6. D'altronde la velocità come sinonimo di intelligenza è stata una nozione sempre presente nella storia degli studi del ramo: da Francis Galton (1883), agli albori della psicologia scientifica per ciò che concerne gli studi sull'intelligenza, fino ad arrivare ai giorni nostri, al tentativo di Jensen di dimostrare la validità del costrutto della velocità come componente essenziale dell'intelligenza7.

A tanti è sembrato che il paradigma della velocità fosse valido per denotare in maniera sostanziale l'intelligenza, perché è parsa una questione di efficienza neurale. Così come certi cavi sono migliori conduttori della corrente elettrica (tanto per usare un'analogia), allo stesso modo determinate catene di neuroni hanno una superiore capacità di elaborazione dell'informazione, grazie ad una base neurobiologica più adeguata. Se questo discorso può essere spinto fino ad esaltare certe etnie in confronto ad altre, sarebbe un discorso interessante da esaminare (ed in effetti il superamento di un certo limite è cosa già parzialmente avvenuta8), ma esula dal mio discorso. Certo è che spesso la scienza è intrisa di ideologia, anche quando assume l'aspetto di scienza sperimentale.

In ogni modo anche la visione popolare comune, non specialistica, identifica l'intelligenza con l'essere sveglio, veloce, pronto nella risposta. Al contrario, l'essere lento, non reattivo è visto nell'immaginario della gente come sinonimo di persona in deficit di intelligenza.

Per ritornare agli elementi costituenti dell'attività intellettiva, voglio sottolineare come, ai fini del discorso qui svolto, non abbia praticamente importanza se poi i cosiddetti componenti cognitivi vengano individuati direttamente e preventivamente, tramite un'analisi degli impegni richiesti dai vari compiti e degli elementi mentali chiamati in causa, oppure successivamente, a posteriori, tramite l'identificazione delle differenze nell'esecuzione degli esercizi, delle diversità manifestate nelle operazioni messe in campo per risolverli. La procedura più comune seguita, per arrivare in questo secondo caso a risultati tangibili, ed ottenerli celermente, consiste nel mettere a confronto, nei test psicometrici, le prestazioni delle persone che hanno ottenuto i punteggi finali più alti con i soggetti che invece si collocano nella porzione inferiore della scala di valutazione (per quanto riguarda sempre la resa intellettiva) e nel paragonare quindi i due gruppi per vederne le difformità di esecuzione.

Nel primo caso, precedentemente accennato, si parla, come s'è visto, di componenti cognitivi, nel secondo si parla di correlati cognitivi. Ma la finalità è la stessa. Individuare gli elementi primi che possano rendere conto delle differenze e giustificarle9.

 

Elementarizzazione e globalizzazione.

 

L'individuazione di tutti gli elementi primi (sopra se ne sono accennati solo alcuni) dell'attività intellettiva è una prospettiva interessante (e certi studiosi sono già pervenuti a risultati che essi considerano conclusivi), ma presenta un doppio rischio: da una parte, questa parcellizzazione estrema può portare, alla lunga, alla perdita di vista di quella che è la prospettiva globale, allo smarrimento della visione corretta che non può che essere complessiva (e pertanto, in certo senso, più della semplice somma delle parti). È come se a forza di osservare il numero, la qualità e le caratteristiche dei singoli alberi, si perdesse di vista la fisionomia dell'intera foresta.

Dall'altra parte, il pericolo è di natura completamente differente: la frammentazione dell'attività intellettiva in una miriade di elementi primi rischia, qualora si utilizzi l'analisi fattoriale per l'esame delle relazioni tra i vari dati, di fare scoprire, a chi compie la ricerca, delle connessioni tra i vari componenti che sono, invece, assolutamente casuali. E' necessario rimarcare come l'analisi fattoriale sia comune nel campo degli studi sociali da alcuni decenni. D'altronde, come è noto, nel nostro settore la replica delle ricerche non è così frequente come nel dominio delle scienze fisiche, in quanto in partenza si sa che sicuramente non si otterranno gli stessi risultati dell'esperimento di prima (tante e tali sono le variabili che influiscono sui dati, che difficilmente, e con sicumera, si potrà mai dire che con un nuovo test sono stati confutati gli esiti asseriti dal ricercatore X antecedente). Anzi, già in partenza si sa che, se fosse possibile replicare n volte lo stesso esperimento in situazioni diverse e ad opera di studiosi differenti, le ripetizioni darebbero risultati aventi la caratteristica distribuzione a campana delle popolazioni statistiche. Cioè determinati studi (diciamo una quota maggioritaria) darebbero esiti più o meno equivalenti a prima, alcuni attribuirebbero effetti considerevolmente più consistenti all'esperimento, mentre altri, invece, allo stesso assegnerebbero efficacia sostanzialmente minore. Molti, pertanto, rinunciano in partenza ad ogni tentativo di replica, trovando più gratificante preparare esperimenti completamente nuovi, di propria ideazione, che daranno senz'altro… risalto e notorietà maggiori.

A mio avviso, si deve dare più risalto all'esame storico dell'intelligenza.

 

Evoluzione storica dei componenti

 

Di gran lunga inferiore è il numero degli studi per vedere qual è lo sviluppo dei componenti costituenti di cui s'è parlato sopra, se essi si alterano o modificano durante la fase evolutiva, e la vita in genere, od anche se con appositi interventi è possibile mutarli, potenziarli, ecc. E soprattutto ancora più importante sarebbe sapere come si modifica l'intelligenza nel suo insieme.

L'adolescenza è, ad esempio, un periodo delicato di passaggio in cui, alla fine, quasi nulla rimane come prima: ma che cosa avviene alla propria configurazione intellettiva? In che modo le abitudini e abilità razionali si trasformano durante tale età, se si trasformano? Non meno urgente è sapere, anzi forse per il nostro discorso lo è ancora di più, che cosa avviene alla struttura mentale quando uno impara qualcosa.

Per chi svolge la professione del docente, conoscere il ruolo dell'apprendimento (sia esso formale, qual è quello che avviene nell'istituzione scolastica, od informale, qual è quello che si verifica nelle occasioni di vita, in famiglia, sul lavoro, con i compagni, ecc.) e la parte che può giocare, se esso, cioè, potenzia o no ed in quale misura le cosiddette capacità degli studenti è di fondamentale importanza.

Ma la ricerca in questo campo (soprattutto di derivazione americana) ha sposato una concezione implicitamente (quando non esplicitamente) naturalistica, agli studi diacronici (cioè storici, con specifico riferimento ai cambiamenti, alla loro possibile origine e direzione) ha sempre preferito un'impostazione sincronica, essenzialmente volta a considerare quello che è come qualcosa che è dato ed è sempre stato. D'altronde osservare cambiamenti significativi nell'ambito delle capacità intellettive, loro mutamenti radicali non è davvero esperienza comune. Ma ciò non vuol dire nulla. Non deve chiudere la strada in via di principio.

 

PARTE II

 

Gli studi sull'intelligenza

 

Abbiamo visto come tanti considerino l'intelligenza come qualcosa di fisso o comunque di sostanzialmente predeterminato. Però, fino ad ora non è stato affrontato direttamente il problema principe, il più importante di tutti: che cos'è esattamente l'intelligenza? Che definizione possiamo darne?

A quella che è, forse, la domanda più importante, stranamente, non può essere, però, data una risposta univoca. Infatti bisogna dire che la discordia tra gli studiosi è stata massima, tanto grande che si è preferito dire che l'intelligenza è …..quella cosa che i test appositi misurano.

A dire il vero, comunque, questo lungo cammino della ricerca … dell'intelligenza, che ci ha portato al punto in cui siamo arrivati, era iniziato in maniera completamente differente.

Gli studi sull'intelligenza cominciarono con Binet e con motivazioni particolarissime e per certi versi ancora attuali. Nacquero all'interno del mondo della scuola e per esigenze "nobili".

Binet, come tanti sanno, fu incaricato dal Ministero della pubblica istruzione francese, all'inizio del secolo scorso (1904), di allestire uno strumento che riuscisse in anticipo ad individuare i ragazzi bisognosi di interventi di recupero ai fini del successo scolastico. D'altronde a livello socio-politico si iniziava a discutere sulle strategie migliori per affrontare i problemi posti dalla prima scolarizzazione di massa, almeno per quanto riguarda l'istruzione elementare, e dalla lotta contro l'analfabetismo. La società stava raggiungendo livelli sempre più elevati di industrializzazione, almeno nell'Europa continentale, ed era necessario ed urgente diffondere quelle elementari conoscenze richieste da un'economia più competitiva e più "tecnologica" rispetto a prima. Era, pertanto, di primaria importanza poter disporre di strumenti, facili ed economici da usare, che potessero identificare anzitempo le eventuali difficoltà scolastiche incontrate dagli alunni.

Binet non vide, però, mai l'intelligenza come un'essenza, come una datità, qualcosa che è separabile da tutto il resto e facilmente osservabile. All'epoca né Binet né altri sapevano con un qualsiasi grado di sicurezza che cosa fosse precisamente l'intelligenza (ed il problema, come abbiamo visto, …..non è stato risolto neanche oggi). Infatti in quel periodo più che di intelligenza si parlava di comportamenti intelligenti, di disposizioni mentali che potevano aiutare a raggiungere il successo nel campo dell'apprendimento rispetto ad altre che invece potevano impedirlo.

Pertanto, Binet, nell'allestire il suo strumento, non partì da una definizione chiara, da un quadro teorico preciso, piuttosto, agendo in maniera molto pragmatica, allestì un potpourri di prove, di compiti non routinari da sottoporre al soggetto in esame. Egli scelse poi alla fine quelli a cui erano in grado di rispondere solo i ragazzi che avevano successo a scuola, ma non gli altri. Così preparò il suo test. Senza un'idea precisa di che cosa misurasse il suo strumento, a parte questa quasi certezza, raggiunta dopo sulla base dell'esperienza, che chi non era in grado di rispondere ad un certo numero di domande, sicuramente avrebbe, nel futuro, avuto problemi a scuola.

La sua difficoltà a definire la "cosa misurata" è compendiata dalla sua confessione che nello scegliere quali esercizi inserire nella prova (cioè nel suo test, il test appunto di Binet) fu guidato dalla personale filosofia che, in fondo, "non aveva molta importanza quali compiti assegnare, l'importante è che fossero diversificati"10. Infatti, molte, almeno all'inizio, erano mansioni curiose, compiti pratici (quindi non domande chiuse, strutturate), tipo…scartare una caramella, oppure ripetere a memoria una frase di 15 parole o, ancora, riuscire a costruire una frase completa con un numero preassegnato di parole.

L'obiettivo di fondo non era, come s'è detto, quello di definire, assegnare un'etichetta (o meglio un numerino, il QI) alle persone, come poi diventerà prassi soprattutto negli Stati Uniti, ma di aiutare i ragazzi, di individuare con un certo anticipo le difficoltà che avrebbero incontrato i discenti, per allestire gli strumenti di recupero. La presupposizione di allora, ma anche di tanti docenti di oggi, è che qualsiasi cosa fosse l'intelligenza, bisognava ammettere la possibilità che si poteva apprendere, imparare, assimilare11.

 

L'ottimismo necessario in educazione

 

Io ora credo che se gli strumenti per misurare la cosiddetta "intelligenza" sono nati all'interno della scuola, nell'ambito dei problemi posti dall'educazione, dunque, ove noi vogliamo trovare il senso originario e proprio delle cose, al territorio educativo dobbiamo tornare. Ora, come allora, si pone in modo pressante la questione di come fare recuperare gli allievi in situazione di svantaggio (qualsiasi sia la sua causa, se cioè di natura psicologica, familiare, socioeconomica, etnica, ecc.).

Io penso che qualsiasi docente, se ha scelto di esercitare questo mestiere, non possa che partire da un posizione "educativa" e, quindi, "positiva" di fronte alle difficoltà: deve cioè necessariamente adottare una filosofia ottimistica, anche se di un ottimismo temperato. E' obbligato a pensare, proprio sulla base della deontologia della professione che pratica, che sia possibile trovare, prima o poi, una soluzione ai problemi. Esattamente come il medico. Se da un punto di vista epistemico, ad es., le ricerche sulle varie malattie che adesso sono considerate come incurabili partissero da una posizione sostanzialmente pessimistica, allora noi non registreremmo nessun avanzamento nel campo delle conoscenze e successivamente delle terapie. E' invece la fiducia che produce avanzamenti.

D'altra parte chi vorrebbe affidarsi ad un medico che, per propria posizione, nell'ambito di certe patologie, già in partenza asserisse che non c'è proprio nulla da fare?

Chi vorrebbe recarsi nel pronto soccorso di un ospedale dove si sa già che tutti i dottori hanno, per partito preso, una filosofia pessimistica?

Io penso che sia lo stesso per quanto riguarda la scuola. Dobbiamo assumere una posizione aperta e fiduciosa.

Il primo passo da compiere, al riguardo, è, ad. es., cambiare la filosofia di osservazione e di valutazione nelle classi (in modo particolare per quanto riguarda le capacità dei discenti).

 

La mente come sistema autorganizzantesi

 

La nostra mente, come dice E. de Bono12, funziona in un modo particolarissimo. È un sistema di processamento dell'informazione, in cui non avviene quello che invece succede in un qualsiasi ufficio ove il segretario a ciò preposto organizza secondo principi prefissati razionalmente tutte le cartelle del suo archivio. No, non capita questo nel nostro caso: non esiste un segretario che sistemi l'informazione della nostra mente. È vero, noi pensiamo di costruirci responsabilmente e coscientemente le nostre strutture mentali, di fabbricarci le nostre visioni, cioè crediamo di essere i segretari di noi stessi; ma in effetti, in buona misura non lo siamo.

Quello che nella realtà capita è completamente differente: è l'informazione che prende il sopravvento; man mano che essa fluisce, si sistema da sola. Il modo in cui scorre, l'ordine di successione delle sue vari parti in un certo senso sono responsabili della struttura che alla fine si crea. Insomma i dati in arrivo si sistemano da soli secondo principi di organizzazione propri. Per questo si dice che la mente è un sistema autorganizzantesi.

Una volta che un quadro mentale si forma, siamo così convinti della sua bontà da pensare che ciò che è, così deve essere. Non può essere altrimenti. Ed allora invece di vedere se esistono orizzonti mentali diversi, di andare alla ricerca di modi altri di inquadrare i fenomeni, preferiamo approfondire quello che è come è. Cioè sviluppiamo, come dice de Bono13, pensiero verticale, riflessione che si avvita su se stessa. Avremmo bisogno di pensiero laterale, di un modo nuovo di strutturare le nostre idee, di sfuggire alla vecchia prigione, ma non ne siamo capaci.

Io penso che ciò sia avvenuto in campo educativo. Ritorniamo dunque alla valutazione.

 

La valutazione dei meriti

 

Siamo abituati a ragionare in termini puramente quantitativi, quando accertiamo le capacità dei nostri studenti. In una società in cui la competizione viene esaltata come motore di progresso e di avanzamento, anche in campo pedagogico il discernere il più ed il meno ci sembra che sia l'unica maniera di accertare le qualità dei discenti.

In ambito economico non è forse vero che siamo invitati ad impegnarci maggiormente, a rendere di più, a lavorare più intensamente perché ne avremo un beneficio diretto noi ed anche la società (così si dice)? Da quanto tempo si asserisce che non tutti possiamo rendere la stessa misura sul lavoro e che pertanto è ragionevole premiare con incentivi economici, ma non solo, coloro che danno di più nell'occupazione che svolgono (anche se poi, in tanti settori, non si precisa in maniera convincente cosa sarebbe questo più)? Non è forse vero che si dice che coloro i quali sono ai vertici della nostra società è giusto che guadagnino cifre superiori rispetto a tutti gli altri, in quanto lo "meritano"? Non è la meritocrazia uno dei pilastri ideologici conclamati delle nostre società occidentali?

Certo sarebbe interessante discutere approfonditamente il concetto di merito e tutti i suoi risvolti impliciti, ma questo non è il contesto adatto. Basti solo dire che, come afferma uno dei guru delle democrazie occidentali, Anthony Giddens14, se il concetto di merito venisse sviluppato coerentemente fino alle sue estreme conseguenze, sarebbe una delle armi più destabilizzanti delle nostre società. Può funzionare in tanto in quanto è parzialmente una finzione. Se svolgessimo logicamente il concetto di merito, allora qualsiasi posizione di comando e responsabilità dovrebbe essere messa ripetutamente in discussione ad ogni nuovo contendente che scende in campo! A qualsiasi sfidante, teoricamente, si dovrebbe dare almeno una possibilità di dimostrare di avere più meriti!

Il secondo limite, forse più grosso del primo, consiste nel fatto che il merito acquisito per qualcosa che si fa (o si è fatto) si trasforma spesso in merito per quello che si è. Cioè dalla superiorità dell'azione si passa alla superiorità della persona.

Anche in campo educativo si pongono problemi simili.

Nella scuola non si parla forse di meriti? Non si dice che il merito deve essere premiato?

In più di un caso agli stessi insegnanti non è chiaro quali pesanti responsabilità siano state addossate loro. La loro azione può avere effetti negativi, non perché essi siano cattivi o poco preparati, ma per un sistema che si configura appunto in questo modo. Infatti differenze iniziali dei discenti, magari trascurabili o piccole, nel medio o lungo periodo possono diventare grandi, in forza propria dell'azione del docente, che in un caso ha premiato, e quindi stimolato, incentivato, spinto, mentre nell'altro ha punito, cioè trattenuto, scoraggiato!

 

Valutazione su scala ordinale e valutazione su scala nominale

 

Il modo più comune di valutare i ragazzi è quello di porli in scala: normalmente nelle nostre scuole utilizziamo la scala ordinale. I voti da 0 a 10 costituiscono, ad es., una scala ordinale; ma anche i giudizi (sufficiente, distinto, buono, ecc.) o le lettere (A,B,C, ecc. - come si utilizzavano una volta nella scuola elementare-) formano una scala dello stesso tipo.

La suddetta scala è definita così, perché ha la quasi esclusiva caratteristica di non dirci molto rispetto a quello che lo studente conosce, ci comunica di più, invece, riguardo alla sua posizione nei confronti dei compagni. Cioè, poniamo che una studentessa abbia preso il sei in Italiano: è stata ritenuta sufficiente per quanto riguarda la sua preparazione, ma il sei in quanto tale non ci dice nulla riguardo ai criteri che il professore ha utilizzato per assegnare tale voto. Potrebbe essere un insegnante severo e quindi "stretto" nei voti. Oppure "largo" e generoso. Il voto di per sé (così come assegnato in questo contesto) non ci trasmette molte informazioni al riguardo. Poniamo per un attimo di essere i genitori della suddetta ragazza: in fondo, il numero in quanto tale non può per nulla rassicurarci, proprio perché non sappiamo niente riguardo alle cose che lei ha esposto. Ignoriamo anche quali sono le conoscenze minime richieste da tale docente perché assegni il sei, o che cosa è da lui preteso per poter passare dal 5 al 6 (cioè dall'insufficiente al sufficiente). La scala ordinale, al contrario della scala ad intervalli15, non definisce in maniera esatta neanche l'entità dei vari gradini. Molti ragazzi sanno, infatti, che è molto più difficile passare dal quattro al sei che non dal sette al nove (anche se da un punto di vista numerico la quota aggiunta è sempre di due) in tante discipline.

Una cosa, però, conosciamo con certezza: questa ragazza è stata valutata come più preparata rispetto a chi ha preso, mettiamo, 5, e meno preparata nei confronti di chi ha preso 7 o 8. Ignoriamo la sua concreta preparazione, sappiamo molto invece riguardo alla sua posizione "concorrenziale" in classe. É positivo questo da un punto di vista educativo? Io credo di no. Anche in questo caso, come per quanto riguarda i meriti, un esito superiore diventa facilmente un essere superiore.

Il discorso accennato ovviamente vale per tutti i gradi di scuola dove si utilizzano sia voti che giudizi. In fondo abbiamo visto prima che non cambia nulla. Il principio è sempre lo stesso, ordinale.

Il modo su accennato di giudicare è così radicato e diffuso che a molti sembra l'unico sistema che abbiamo per valutare. Ma è necessario uno sforzo di pensiero laterale!

Disporre i discenti lungo una linea verticale che dal basso vada verso l'alto non è, però, soltanto dannoso dal punto di vista psicologico o maturativo: è anche errato da un punto di vista strettamente cognitivo. Significa vagliare i discenti esclusivamente (nel nostro sistema scolastico) secondo un asse sostanzialmente e quasi esclusivamente logico-verbale (dato anche, e non concesso, che tutte le valutazioni dei docenti siano corrette e non viziate da difetti di altro tipo).

Ma nella mente, nelle disposizioni dell'uomo, ed anche nella sua cultura, c'è molto che più che capacità logico-verbali16. È pertanto, estremamente erroneo, e semplicistico, classificare in modo unilaterale, unidimensionale gli alunni. Una sola misura o un insieme molto ristretto di misure non può rendere conto della ricchezza delle persona.

La rappresentazione grafica di una classe, a mio avviso, più corretta non è quella di un allineamento in senso verticale, in fila perpendicolare all'asse delle ascisse, dei tanti puntini (ognuno rappresentante un alunno), insomma dal peggiore al migliore. Una riproduzione schematica più completa è, invece, quella di una nube (o scatter plot). Qui non c'è tanto il più ed il meno, piuttosto il diverso, il differente. La disposizione non è più in senso verticale ma prevalentemente lungo l'asse orizzontale, attorno ad un'area di dispersione. Come conseguenza perde di peso la competizione, essa cede di importanza,risalta la posizione pressoché unica di ogni persona, certo forse i suoi limiti, ma anche le sue doti, i suoi talenti.

Perché questo avvenga chi lavora nella scuola deve imparare a fare un uso più intenso di una scala molto importante (a dire il vero pochissimo utilizzata oggi): la scala nominale. Essa serve per indicare qualità che difficilmente possono essere ordinate seconde una successione. Ad esempio il sesso è un carattere nominale (sarebbe assurdo disporre le persone secondo …il loro essere più maschi rispetto ad altri maschi, più femmine rispetto ad altre femmine o addirittura maschi davanti a femmine); lo stesso dicasi della città di provenienza (non si può essere più Romani.. rispetto ad altri Romani, o più Milanesi rispetto ad altri Milanesi; né si può dire che i Milanesi sono più …. dei Romani). Qui si parla di categorie differenti ed imparagonabili. Ovviamente le qualità da osservare nella scuola sarebbero altre. Quelli appena riportati sono solo…esempi di scala nominale.

E' auspicabile che nell'area dell'educazione l'interesse a prendere in considerazione molte più qualità di quelle che oggi esaminiamo diventi lentamente un'abitudine.

Ad esempio gli stili cognitivi sono un fattore importante di successo, eppure raramente vengono vagliati. Chi si è accorto se il proprio alunno ha uno stile verbale piuttosto che visivo? Chi sa quali alunni manifestano nelle attività di classe uno stile analitico invece che globale?

E poi: quanti docenti prendono in considerazione gli hobby dei discenti, i loro passatempi, considerandoli per quello che sono, uno strumento di iniziazione alla realtà ed un modo per sviluppare sane curiosità (magari da fare evolvere poi in un senso più disciplinare)?

Ma domande importanti sono anche: come è possibile sviluppare l'intelligenza musicale o quella cinestetica, che spontaneamente, in particolare durante la fase dell'adolescenza, molti manifestano17?

 

Il peso della tradizione culturale

 

Indubbiamente, se ciò non avviene, non possiamo comunque puntare il dito sui docenti. Dico subito che essi, a mio parere, sono incolpevoli. La responsabilità risiede, innanzitutto, in una certa tradizione culturale che ha favorito e giudicato come scolasticamente appropriati solo certi argomenti e degne di essere valutate le capacità precipue da essi richieste. La nostra tradizione fondamentalmente retorico-oratoria ha privilegiato, considerandolo quasi come l'unico valido, lo stile verbale. Si ascoltava e si parlava. Bisognava essere svelti nel capire di fronte ad un'oralità dilagante (un tempo era così, non c'erano le immagini) ed anche forti di memoria (il bravo oratore recitava a memoria, non vedeva, non mostrava, non leggeva).

Inoltre la nostra cultura doveva per forza privilegiare (in passato, ma anche oggi) lo stile analitico rispetto a quello globale: l'avvocato non poteva (e non può a tutt'oggi) che andare alla ricerca dei dettagli, della precisione. Nella nostra tradizione oratoria l'uomo di dottrina è forzato ad essere necessariamente capace di sottigliezze causidiche. Deve soffermarsi sui particolari prima di passare al tutto. Ma i nostri discenti devono diventare tutti avvocati?

Un discorso particolare, che, però, non affronterò qui in quanto particolarmente lungo, meriterebbero poi le varie disposizioni affettive, anch'esse fattori importanti di successo scolastico e da tenere, perciò, sotto controllo.

Un utile strumento per le osservazioni nominali è il portfolio. Esso può, molto brevemente, essere definito come una raccolta di prodotti dello studente, contenente anche tutto quello che può essere utile per una conoscenza più approfondita del discente. Sul portfolio cominciano ad accumularsi le prime sperimentazioni anche nell'ambito della scuola italiana.

Ma ritorniamo ora al discorso principe delle capacità.

 

L'intelligenza come qualità unica

 

Devo specificare (lasciando da parte qui…ogni disquisizione accademica) che da un punto di vista formativo, quello privilegiato nel presente articolo, l'intelligenza è normalmente intesa come la capacità di capire, catturare il senso della realtà che ci circonda e di compiere operazioni su di essa.

Io ritengo che, pertanto, essa, entro certi limiti, debba essere considerata una qualità unica, più che una caratteristica disponibile in maniera ordinale (del più o meno). Con ciò non voglio negare che ci siano differenze (né tantomeno contestare il discorso sulle intelligenze multiple di Gardner, cioè che esistano diverse intelligenze che si esercitano su aree non omogenee): è anzi proprio quello che ho sottolineato poco fa. Intendo, invece, affermare che le diseguaglianze osservate normalmente riguardano la manifestazione storica di essa, il suo utilizzo più che la cosa in se stessa. Ogni conclusione riguardante, pertanto, le sue potenzialità pure sarebbe fuorviante. Dal punto di vista educativo pensare diversamente avrebbe poco senso.

Non è possibile immaginare come legittima, in senso pedagogico, un'asserzione che difenda la disposizione degli alunni, per le capacità e l'intelligenza, lungo una scala ordinale. Essa non è accettabile e non sarebbe corretto giustificarla facendo riferimento ad una differenza reale nell'essenza della cosa in oggetto, di natura insomma sostanziale. E' noto che molti vedono diversità di gradi e pensano in termini di più e meno. Ma ciò non vuol dire che quello che viene asserito dai tanti sia vero. Per la stragrande maggioranza delle situazioni, sottolineo stragrande maggioranza, il suddetto discorso non ha proprio senso.

Se fosse vero che c'è una differenza di gradi, una diversità reale, questo allora vorrebbe dire che, in via di principio, alcuni studenti non potrebbero andare al di là delle parti, diciamo iniziali, di una disciplina, date le loro scarse capacità. Non potrebbero mai e poi mai capire le parti finali, più complicate, esse sarebbero, comunque, al di fuori della loro portata. Qualsiasi cosa misurino i test di intelligenza, in ogni caso non si potrà mai affermare che, -mi sto riferendo, ripeto, alla stragrande maggioranza delle situazioni-, alcuni concetti possono essere catturati da una determinata classe di persone, ma mai e poi mai da altre, data la loro posizione nella scala delle capacità in cui sono stati collocati. Questa affermazione da un punto di vista educativo suonerebbe come aberrante. Bisognerebbe, ad. es., concluderne che a certi livelli sarebbe inutile tentare di far capire agli alunni l'entità degli errori commessi nello svolgimento di un esercizio, perché la loro comprensione sarebbe al di fuori della portata di questi ragazzi.

Le vere differenze nelle capacità esistono, ma sono per fortuna molto più rare di quello che si pensa.

Esistono, sì, vere diversità di grado che sono diventate conseguentemente diversità di genere, ma sono fenomeni singolari, che meriterebbero una trattazione particolare (esorbitante i limiti della presente trattazione). Posso solo brevemente accennare ad una di esse, abbastanza curiosa. Mi riferisco al fenomeno della discalculia18, a quella forma presente in soggetti che abbiano subito danni al cervello. Essa è l'incapacità ad eseguire i calcoli, anche quelli più elementari. Tale disfunzione è singolare: queste persone, pur abili in tanti altri settori della vita, anche se dimostranti, insomma, capacità razionali "normali", quando vengono invitate a compiere operazioni elementari di natura numerica (ad. es. 4+5), si trovano in estrema difficoltà. Conoscono sì astrattamente il significato delle varie operazioni (addizione, sottrazione, ecc.); dicono di comprenderle perfettamente, ma quando devono eseguirle concretamente, allora si perdono. Danno cioè risultati errati, né c'è verso di far loro comprendere la natura dei loro errori, non serve; alla prossima occasione ripeteranno l'errore.

Ma non voglio dilungarmi oltre. Non accennerò ad altre "patologie" (alcune delle quali più diffuse- vedi alcune sindromi- di quella sopra descritta: sarebbe interessante parlarne, ma manca lo spazio). Anch'esse, comunque, comportano problemi similari nella comprensione delle cose e nell'elaborazione delle informazioni. Ecco, in tutti questi casi, abbiamo a che fare con scarti veri di "intelligenza".

Una delle acquisizioni stabili della ricerca psicopedagogica degli ultimi decenni è la nozione che, per il resto, in via di massima, tutti possono capire tutto, la variabile principale da prendere in considerazione, e che può determinare differenze, è quella del tempo19. Cioè alcuni possono necessitare più tempo per padroneggiare una certa porzione di disciplina, dati i loro livelli iniziali (non è da escludere che questi tempi possano anche essere molto lunghi; e del resto chi può veramente dire che ha finito di capire, che è arrivato alla meta, perché…ha compreso tutto?). Ovviamente un'altra variabile che necessariamente interagisce con la prima è quella della motivazione: quanto siamo determinati a reggere un tempo lungo? Non dimentichiamo che al riguardo tanti fattori possono condizionare la nostra costanza ed applicazione. Comunque, qualunque sia la situazione, in via di principio, la stragrande maggioranza degli studenti (tranne i casi particolari cui si accennava prima) possono capire tutto.

A dire il vero questa non è neppure una posizione teorica recente; fin dall'antichità, dai tempi di Platone, molti hanno pensato che ognuno di noi ha la possibilità di comprendere tutto, non ha che da cercare e guardare dentro se stesso. Le idee sono innate; non dobbiamo quindi ricevere nulla dall'esterno; conoscere significa semplicemente guardare dentro se stessi. Non dobbiamo inventare nulla, dobbiamo solo riscoprire, ricordare, come diceva il filosofo fondatore dell'Accademia.

Io non credo che oggi siano in tanti a credere nelle idee innate; quella visione non è più attuale come un tempo; certo è che, comunque, tali posizioni contenevano una profonda verità: cioè quella che a tutti è possibile cogliere elementi della realtà, non ci sono delle preclusioni di natura essenziale per alcuni. Anzi all'opposto. Ognuno di noi, senza esclusioni, ha una radicale apertura verso la conoscenza. Allora, se qualcuno prevede (o altri magari lo immaginano al posto suo) che non arriverà mai ad afferrare determinati elementi o concetti, bisogna dire con forza che questa convinzione non smentisce solo delle moderne tendenze psicopedagogiche, ma anche...un'antica filosofia.

 

L'intelligenza come la storia dei nostri apprendimenti

 

Io credo, pertanto, che da un punto di vista scolastico, sia più fruttuoso tornare a considerare l'intelligenza come l'abilità di apprendere, che non è comunque prefissata astrattamente alla nascita, ma è frutto delle concrete esperienze di apprendimento che man mano sono state compiute. Questo filone di ricerca una volta abbastanza sviluppato, adesso è stato precocemente, a mio parere, abbandonato. Bisogna riprenderlo, ponendo sotto osservazione, però, l'abilità di apprendere piuttosto che in astratte condizioni sperimentali, nelle concrete situazioni di apprendimento, soprattutto quelle scolastiche.

È necessaria, se si vogliono capire le capacità ed aiutare i discenti, un'investigazione di natura longitudinale, storica. Bisogna partire dal presupposto insomma che ciò che è, è frutto di ciò che è stato. Non è possibile, come educatori, professare una concezione statica delle possibilità di ognuno, ingenuamente naturalistica. Per fortuna il destino che ci attende non è completamente determinato dai nostri geni.

La mia esperienza mi dice che normalmente se uno capisce al volo rispetto ad un altro discente, non è perché sia più veloce di mente; non ha un processore (per usare un'immagine presa a prestito dal mondo dei computer) più potente, più dotato, per così dire, di un numero maggiore di MHz. Mi rendo conto che venga spontaneo arguire questo (è la prima cosa a cui normalmente si pensa); tale concezione è stata anche sposata da certi filoni della comunità scientifica. Ma io credo che sia errata. In ogni modo, dal punto di vista educativo, reputo che sia più fruttuoso partire da un'idea diversa.

Chi afferra prima di altri i concetti lo fa perché parte normalmente da presupposizioni corrette, perché il suo percorso di comprensione, storicamente determinatosi, è quello appropriato, richiesto nella circostanza. Esso lo fa, pertanto, arrivare alla meta più celermente. Le presupposizioni sono date dalle esperienze pregresse, dai suggerimenti e dagli echi che vengono dal proprio passato, oltre che dalle energie che uno può mobilitare nella data situazione. Certamente nessuno si dà astrattamente o artificiosamente le presupposizioni. Le pratiche precedenti condizionano. È come se si formassero dei binari che guidano ed indirizzano verso un'area di significazione invece che altrove.

Ecco perché non si può parlare propriamente di errori. L'errore è un allontanarsi dalla norma. Ma nel campo cognitivo, in senso stretto, nessuno si allontana dalla propria norma (a meno che non dia una risposta senza pensarci, ad occhi chiusi, a casaccio, in uno stato di dormiveglia, ecc.). Si può parlare al massimo di risposta non accettata o accettabile, ma ognuno propriamente sta seguendo i suoi fili, i suoi binari. Solo che non ci si attendeva da lui che percorresse quella pista. Si può, se si vuole, parlare di fraintendimento, ma non si può alludere in tal caso ad un qualcosa che non funziona nella sua mente, ad un meccanismo logico difettoso (come, invece, sarebbe il caso se fossimo in presenza di discalculia). Ecco perché gli stessi "errori" hanno una funzione utilissima. Essi sono stati definiti come "organizzatori di conoscenza"20. Né nell'ottica della complessità e del pensiero "sistemico"21, si può semplicisticamente pensare ad operazioni di rifacimento delle fondazioni "conoscitive" degli studenti che, per quanto lunghe e faticose, una volta compiute, potrebbero mettere per sempre con la coscienza a posto i docenti.

Nella vita si impara e si disimpara in continuazione. Il percorso di apprendimento e di sviluppo non è mai lineare e unidirezionale per nessuno. Quindi anche i migliori scolari possono attraversare periodi di regressione cognitiva, di involuzione. Ma essa può essere salutare per una nuova crescita. Dobbiamo abituarci a concepire una prospettiva di sviluppo intellettuale che sia non di infinito progresso, ma ciclica, o meglio a spirale, in cui a momenti di avanzamento, seguiranno momenti di ritorno indietro e di recupero. E questo vale per i discenti come per tutti gli adulti in genere, essi pure in situazione di apprendimento, anche se non formale.

Bisogna dire che queste variazioni sono testimoniate pure dai tradizionali test di intelligenza (cioè di QI), quando essi vengano ripetuti a distanza di un decennio (circostanza in cui troveremo scostamenti significativi in una direzione o nell'altra per la medesima persona22).

Dicevo che dovremo compiere più analisi longitudinali, storiche degli apprendimenti pregressi e del modo in cui essi condizionino le comprensioni successive. Dovremo trovare e formalizzare le relazioni tra i vari percorsi, tra le storie di apprendimento ed i risultati, gli esiti raggiunti in situazioni concrete, soprattutto scolastiche, con riguardi particolari alle varie aree disciplinari. Si può essere sicuri che tali cammini influenzino anche le prestazioni misurate dai vari test strutturati, in situazioni formalizzate insomma: anche se poi penso che siano più interessanti i condizionamenti sui compiti veri di vita.

 

Nuove tecniche di analisi

 

Pertanto, io credo che sia il caso di aggiungere, nello studio dell'intelligenza, alle metodologie consolidate di natura esplorativa (vedi, innanzitutto, il genere di analisi fattoriale iniziata con gli studi di Spearman) ed alle nuove metodologie di analisi confermativa (in particolare i confirmatory IRT models23), delle tecniche investigative di natura differente, che siano in grado di individuare i vari snodi, i passaggi del cammino di apprendimento e comprensione, standardizzandoli il più possibile (formandone, cioè, una tipologia) e collegandoli con gli esiti, almeno per alcuni tra i concetti più significativi nello sviluppo intellettivo della persona. Sono necessarie delle tecniche regressive, ma non nel senso in cui questo termine viene usato nell'analisi di tipo statistico, quanto piuttosto nel significato di retrocedenti.

Voglio essere più specifico: la storia personale di apprendimenti di ognuno di noi fa sì che si siano create delle coordinate di comprensione e che esse agiscano come struttura di definizione del quesito o della questione (scolastica o meno) che ci troviamo di fronte. Volendo usare un'immagine molto concreta, si può dire che l'area generata dall'apprendimento particolare (formale od informale, non ha appunto importanza) cui siamo andati incontro durante la nostra vita, -soprattutto durante la sua prima fase-, determina come un bacino, un canale di significazione nel cui ambito esclusivo il quesito sarà affrontato.

 

Le due dimensioni della comprensione

 

La comprensione, ogni comprensione, ha, a dire il vero, due dimensioni: una verticale, più importante, perché parte dall'interno, da dentro noi stessi. Essa dà il verso di orientamento; la verticalità rappresenta la direzione che indirizzerà la nostra vista ed è data dai significati sedimentati, depositati, profondi. Ma c'è anche la dimensione orizzontale, che estende all'esterno, amplia.

Se uno da piccolo, poiché ne aveva acquisito l'abitudine, giocava con i cani, li provocava ripetutamente e poi è stato conseguentemente morso da qualcuno di loro, è probabile che ora associ il vocabolo a qualcosa di brutto e che odi i cani perché reattivi. È la dimensione verticale. Quello che ho detto indubbiamente riguarda più il lato emotivo; ma è coinvolto anche l'aspetto cognitivo in questo asse. Se costui si interessasse agli studi sul cane è probabile che mostrerebbe più attenzione verso certi aspetti e non altri dell'animale (che non vedrebbe neppure) e che la sua percezione e comprensione globale della cosa sarebbero condizionate, coscientemente o inconsciamente, da questa come da altre sue eventuali esperienze precedenti "forti". La verticalità rappresenta il punto di vista, il significato.

Ma c'è anche la dimensione della orizzontalità. Essa riguarda l'estensività; partendo dal cane io posso decidere di studiare la natura degli altri animali, interessarmi ai loro comportamenti. Gli animali concretamente da prendere in considerazione sono determinati, però, più da fattori attuali che da fattori pregressi. Può essere che nella mia zona ci siano molti animali di una certa specie, ma non di altre. Può essere che casualmente andando ad uno zoo incontri un animale particolare. L'orizzontalità riguarda l'attenzione.

Quindi verticalità da una parte, orizzontalità dall'altra ovvero significatività contro estensività. Indubbiamente, nessuno può affermare con sicumera che sia possibile separare in maniera netta i due fattori: essi interagiscono e si condizionano a vicenda. Ma ai fini della ricerca è utile distinguerli.

 

Capacità e risultati

 

So che molti si attestano "sulla linea del Piave" dei risultati. Essi affermano che alcuni soggetti dimostrano capacità comunque superiori, perché danno esiti migliori. E nell'economia, nelle varie attività, nella vita in genere quello che conta veramente sono i risultati, non i tentativi, non le buone intenzioni. I percorsi di significato individuali possono essere anche interessanti, ma, questi critici dicono, privi di valore pratico. Alla fine bisogna pur, affermano, separare chi può da chi non può (attenzione alle parole: non si dice chi fa da chi non fa, ma chi può da chi non può). E tanti di coloro che professano questo modo di vedere, prendono spunto anche da alcuni filoni di ricerca esistenti.

È stato, ad es.24, arguito che in una situazione di test strutturato la persona oggetto di studio la quale prende in esame, utilizzandoli tutti, i dati della situazione a lei sottoposta, comunque fornisce una risposta più intelligente di chi si serve solo di una porzione degli elementi a disposizione. In altri termini, essendo la risposta vera, in una circostanza come quella sopra illustrata, una ed una sola (dando ovviamente per scontato che chi ha allestito la condizione sperimentale è persona accorta, cioè capace di evitare problematiche equivoche o aperte a molteplici interpretazioni), chi la individua dimostrerebbe capacità migliori rispetto agli altri.

Un esempio riferito da Eysenck può servire a chiarire: "Ecco cinque città: vi si chiede di sottolineare quella che non rientra nella serie. Le città sono: Panama, London, Duluth, Cambridge e Edsele."25 Si potrebbe pensare di scartare Duluth perché è l'unica che termina con th oppure London perché è l'unica megalopoli del gruppo, Panama perché è l'unica città sul continente americano, ecc.; esse sarebbero comunque risposte non pienamente soddisfacenti, in quanto parziali. La risposta esatta, in effetti, è Cambridge perché "mentre nel nome delle altre città c'è una sola vocale che si ripete più volte, in Cambridge vi sono tre vocali differenti[…….]; questo problema contiene tutte le informazioni utili alla sua risoluzione e chi lo ha impostato deve avere certamente selezionato le cinque parole in modo così rigoroso che, nell'insieme, esse indichino la via ad un'unica risposta esatta. [….]L'elemento essenziale e non accidentale sta nel fatto che tutte le vocali che compongono il nome di quattro città su cinque sono identiche in ogni parola; ciò non succederebbe per caso nemmeno una volta su un milione perciò deve essere considerato intenzionale. Di conseguenza, la risposta data più sopra come corretta si distingue da tutte le altre perché utilizza un dato informativo del test che non viene, invece, utilizzato affatto nelle altre risposte alternative."26

Due osservazioni al riguardo.

Innanzi tutto anche la regola: "attenzione devi necessariamente utilizzare tutti gli elementi a disposizione, perché altrimenti produrresti una risposta non valida o comunque giudicata di livello inferiore rispetto ad altre possibili!" è una norma acquisita, è anch'essa figlia delle proprie esperienze di apprendimento (formale o informale che sia) pregresso. Sì, si potrebbe sostenere che queste cose si dovrebbero intuire al volo, che certi particolari non vanno spiegati, perché di comprensione immediata, ecc. Ma anche l'intuizione è, in un certo senso, figlia delle personali, particolarissime esperienze passate di apprendimento.

In secondo luogo nella realtà, quella vera, non quella creata artificialmente durante le ricerche di natura sperimentale, non esistono un insieme di dati predefiniti da prendere necessariamente in considerazione, pena una risposta errata! La realtà non è strutturata, come gli item dei test tipo QI, e non esiste una soluzione depositata da qualche parte verso cui uno può indirizzarsi per sapere se essa è stata azzeccata oppure no (o qualcuno a cui chiedere)!

Il mondo è spesso un posto confuso, dove risposte scartate in prima battuta perché considerate inadeguate si rivelano in un fase successiva come la soluzione al problema (o viceversa)!

Che la vita sia complicata e composta da mille fattori è così vero, che se noi usassimo i test tipo QI, per predire non il successo scolastico (e si è visto che in questo senso essi funzionano abbastanza bene), ma il successo nella vita, dove sono tante le variabili in gioco, ci accorgeremmo che hanno, allora, una validità trascurabile27.

È il caso di rimarcare che c'è una sostanziale differenza tra l'essere intelligente in maniera reattiva (è la caratteristica che viene più frequentemente verificata in situazioni scolastiche, quando devi dare la risposta "giusta") e l'essere abili in maniera proattiva, nelle comuni condizioni della vita, quando è necessario individuare, innanzi tutto, prima ancora che la risposta, la domanda esatta! Ed allora paradossalmente anche fattori accidentali possono giocare un ruolo importante. È ovvio che chi cerca, e sa cercare, prima o poi trova, come afferma il detto popolare, ma è anche vero che qualcuno può essere più fortunato rispetto ad altri.

 

Apprendimento e significati personali

 

Ritornando al tema centrale dell'apprendimento e della comprensione, contribuiscono ad arricchire (o a complicare, secondo le circostanze) la storia dei propri apprendimenti, anche le personali credenze sul modo in cui si apprende e che cosa è apprendimento (il riferimento qui è principalmente all'ambito scolastico). Si passa da una fase elementare in cui si pensa che esso coincida con la memorizzazione di fatti e concetti, perché cosi' vuole la maestra, allo stadio finale in cui ci si pone il problema di una comprensione piena e profonda, intesa come riferimento alla propria esperienza personale. Chiaramente non è un procedimento lineare né avviene in tutti nello stesso momento.

Può essere addirittura che la fase della personalizzazione dei significati non avvenga mai per tanti. Capita anche che molti abbandonino perché, sebbene tentino di cavarne un senso, non solo non riescono, come succede ad alcuni ed è naturale che succeda, ma hanno la convinzione radicata che o tu capisci subito o non capirai mai. Allora molti studenti lasciano, perché guidati dalla persuasione che se non hai raggiunto velocemente la meta, tu non sei tagliato per quella materia27. È il mito della velocità (fatto proprio anche da tanti insegnanti, a dire il vero): ma esso è pericoloso, perché fare in modo istintivo le cose può significare perdere in pensosità, in flessibilità, che, invece, sono qualità notevoli ed esclusive dell'essere umano. Riuscire a modificare convinzioni autolimitanti, errate dei discenti significa aiutarli ad apprendere meglio. Anche in questo caso per cogliere le concezioni profonde degli studenti, farle emergere e tentare di modificarle è necessario un lavoro di investigazione e di conoscenza non superficiale.

Come è stato più volte rilevato il testing di gruppo aiuta poco in questo processo. Un certo risultato, un dato punteggio possono essere prodotti da fattori disparati e non paragonabili tra di loro28. Pertanto, se è vero che i test sono economici da somministrare, è anche vero che ci informano poco sui processi (un po' di più sui prodotti).

Il dialogo, più costoso in termini di tempo, è però uno strumento che dimostra un'efficacia maggiore per conoscere le persone ed i loro processi mentali in profondità.

Si può anche partire semplicemente dagli esiti conseguiti in una prova strutturata, ma bisogna poi andare oltre e capire meglio, ad es., un'intera catena di ragionamento, qual è il suo punto di origine e come arriva dove arriva oppure quali problemi implica.

Quando negli esiti di un apprendimento ci sono delle distorsioni, allora bisogna partire dal punto iniziale, dall'origine: per produrre cambiamenti è necessario che le modifiche avvengano allo stesso livello di profondità in cui un problema si è posto. Anche per mutare certi atteggiamenti comuni di rigetto, o addirittura di viscerale odio, nei confronti di date discipline (ad es. riguardo alla matematica), bisogna riandare a quelle fasi particolari, a quegli argomenti iniziali in cui questa antipatia è sorta per un certo modo sbagliato da parte del docente di porre quelle porzioni di disciplina o di valutarne il profitto conseguente (oppure, sul versante dell'allievo, per un certo modo non corretto di percepire la stessa). Non è tanto una questione di rispiegare quelle parti, quanto di modificare il livello di coinvolgimento personale da parte del discente. Non bisogna dimenticare che la nostra intelligenza è fortemente condizionata dalle esperienze pregresse che abbiamo compiuto. Finché un cambiamento non viene introdotto al livello opportuno, siamo condannati a ripetere certi atteggiamenti e date catene di ragionamento "solidificate".

 

Risultati e comprensione in ambito scolastico

 

L'attenzione ai processi è di fondamentale importanza; secondo il mio parere noi ci siamo ultimamente concentrati in misura eccessiva più sulle competenze, sull'esecuzione. Ciò comporta il rischio che spesso gli studenti fingano di capire, senza veramente comprendere in profondità. Essi, in più di un'occasione, riescono a mimare bene la comprensione, senza avere però in sostanza una visione corretta del problema. Gli alunni, come parecchi insegnanti hanno potuto notare, in situazioni scolastiche, controllate, riescono a dare un aspetto di coerenza ai contenuti esposti o ad eseguire alla perfezione la prestazione richiesta loro, ma poi in una situazione "naturale", di spontaneità, quando sanno di non essere scrutati, le loro performance sono scadenti; recuperano concezioni ingenue, infantili29.

Quindi il risultato non è il punto di arrivo ma solo di partenza. D'altronde, come spesso la filosofia (dai tempi di Socrate in avanti) ha ripetutamente ricordato, non bisogna dimenticare il paradosso della comprensione, e cioè che più capisco e meno capisco, più so e più so….di non sapere. Insomma il cammino per comprendere è un sentiero che non finisce mai, perché il conoscere automaticamente innesca altra sete di conoscenza e così via in un processo senza fine.

Molte delle concezioni erronee, infantili cui si accennava sopra sono ormai così radicate che vengono a costituire una sorta di inconscio cognitivo collettivo, una specie di tunnel buio della mente in cui è facile rimanere imprigionati e da cui è difficilissimo uscire30.

 

Utilità e limiti degli schematismi

 

D'altronde gli automatismi mentali che spesso funzionano da trappole, gli schemi concettuali e logici radicati di cui è arduo disfarsi, sono anche gli stessi che in molte altre circostanze ci aiutano tantissimo, in quanto semplificano di molto la nostra vita. È stato detto scherzando che se non avessimo gli automatismi che applichiamo quando, ad es., attraversiamo una strada, se fossimo come extraterrestri che si trovano per il primo giorno sulla Terra e di essa non conoscono nulla, allora già un semplicissimo atto, come quello di passare alla banchina opposta, richiederebbe almeno mezza giornata di calcoli complicatissimi (osservare il traffico e le sue modalità di svolgimento, direzioni, ecc. per una porzione di tempo sufficientemente lungo; riuscire a computare la velocità media dei veicoli; osservare come i comuni terrestri attraversano e con quali regole; vedere se sussistano altri pericoli oltre a quelli rappresentati dalle automobili; ipotizzare la durata del proprio transito e calcolare a quale distanza devono essere i veicoli per poter compiere l'operazione in tutta sicurezza, ecc., ecc.)!

Grazie, invece, agli schemi di comportamento acquisiti per la circostanza data, quella operazione diventa abbastanza semplice e veloce. Ma allo stesso tempo, appunto, gli schemi possono anche favorire la pigrizia mentale e non farci scorgere se ci sono altri modi più "intelligenti" e più comodi di compiere le medesime azioni.

Un'eguale cosa avviene nel campo cognitivo: una volta che si sono formate delle teorie, frutto anche dell'assuefazione, nella mente del bambino, comode per spiegare certi fenomeni comuni del mondo e della vita (il caldo, il freddo, la caduta dei gravi, l'amore, l'odio, ecc., ecc.), è molto difficile che egli se ne liberi per abbracciare concetti e principi più completi, più maturi, meno incoerenti. Tenderà, invece, a pensare che quello sia l'unico modo vero di vedere e di operare. Se costretto a ripetere idee nuove, le ripeterà a pappagallo, perché sente che deve conformarsi a quello che dicono i docenti, ma quando sarà da solo ritornerà alla sua vecchia "fede". Allora per avere una coscienza scolastica matura bisogna che l'insegnante assieme al ragazzo seriamente riveda, per consolidarli, tutti i passaggi cruciali, gli snodi storici: solo così il discente veramente passerà da una concezione infantile, spontanea al sapere "sofisticato".

Dunque non bisogna accontentarsi della risposta "giusta" in ambito scolastico perché dietro una resa superficialmente corretta ci può essere un percorso meno convincente, vecchie visioni.

Anche un certo tipo di ricerca (soprattutto americana, spesso attenta solo allo scoring, cioè all'assegnazione del punteggio), come s'è già detto prima, si è interessata esclusivamente dei risultati senza osservare i processi, i cammini. Ma se essi fossero studiati sistematicamente, allora verrebbero scoperte delle cose interessanti o addirittura sorprendenti.

 

PARTE III

 

I risultati di un esperimento

 

Voglio, in questo contesto, riferire i risultati di un piccolo esperimento condotto a Marzo 2003 in una classe di 21 studenti (15 anni l'età media) dell'Istituto Tecnico Statale Commerciale "F. Besta" di Ragusa (anche se qui vengono riportati solo i dati della prima esperienza, risposte e giustificazioni abbastanza similari in termini percentuali sono stati ottenute in altre due classi di studenti della medesima fascia d'età, a distanza di una settimana).

Ho somministrato loro, in una prima fase, un test di 10 quesiti volti a saggiare soprattutto le capacità di ragionamento logico- verbale. In un momento successivo, dopo che il test era stato corretto, ognuno degli studenti è stato invitato a giustificare la propria risposta (senza, però, che ancora fosse stato loro specificato se essa era esatta o meno), e ad indicare i fili del ragionamento che lo avevano portato a quella data conclusione. In qualche caso è stata individuata la tipologia di apprendimento che aveva portato al risultato conseguito.

Questo lavoro di scavo in profondità alla ricerca della tipologia degli "apprendimenti primi" è stato, però, possibile solo parzialmente, dato il tempo a disposizione (due ore). Non c'è stato il tempo, cioè, per svolgere questo cammino a ritroso in ogni situazione. Sono, comunque, state ascoltate le spiegazioni e giustificazioni di tutti e sono state individuate per ognuno le "coordinate di comprensione", cui si accennava sopra; per tale motivo si vedrà come in senso proprio non si possa parlare di errori.

Vengono qui riportate le dieci domande (e le relative opzioni di risposta), poste per analizzare le loro capacità di ragionamento. Ognuno è stato invitato a riflettere con accuratezza, prima di rispondere, pur ribadendo che si trattava di un gioco (e quindi non c'era nessuna intenzione "classificatrice").

 

I quesito

________________________________________________

 

(I quesiti sono stati tratti dal volume di Giovanni Vignola, I test psicologici- Manuale pratico per valutare l'intelligenza, Milano, De Vecchi editore, 1995. Sono riprodotti per gentile concessione della casa editrice.

Il tempo complessivo assegnato per le 10 domande è stato di 15 minuti)

 

 

Mio fratello è un dottore. Fra gli uomini ci sono molti dottori. Quindi:

Mio fratello è un uomo.

Mio fratello è uno dei molti.

_______________________________________________________________________________________

18 persone indicano la risposta corretta (che è la b), ma, mentre dieci la giustificano dicendo che "è scontato che è un uomo" e che, perciò, la frase corretta non può che essere b (avendo imparato che bisogna diffidare delle frasi….più ovvie e stare attenti…..alle trappole: in altri termini hanno presupposto che bisognava attingere al proprio bagaglio di conoscenze procedurali, come si dice in gergo), solo 8 indicano una giustificazione più contenutistica, manifestano, cioè, maggiore attenzione al significato di quello che viene detto ed alla logica delle asserzioni. Essi infatti dichiarano che potrebbero esserci anche dottori che non sono uomini, se noi stiamo semplicemente alle frasi31.

Potremmo pure che dire che la giustificazione del primo gruppo di 10 persone è una tipica manifestazione di quello che alcuni ricercatori definiscono come un eccesso di intelligenza (che spesso induce in errore chi deve rispondere a una domanda, facendogli presupporre significati più reconditi, seconde intenzioni da parte di colui che ha costruito il test). Qui c'è un apprendimento pregresso che dice "mai scegliere le risposte ovvie quando ti sottopongono a un test". In questa classe l'eccesso di intelligenza non produce un errore, per puro caso, ma nella stragrande maggioranza dei casi fa scartare la risposta corretta proprio perché considerata troppo "scontata".

Abbiamo comunque una concreta dimostrazione di un altro aspetto paradossale: si può arrivare alla risposta corretta, ma per le ragioni sbagliate.

Tre persone indicano invece la risposta (scorretta) a, giustificandola con la motivazione che hanno intravisto una sottolineatura in quel "Fra gli uomini". Le due asserzioni più importanti sono, a loro parere, che lui è un dottore (cioè un uomo) e che è fra gli uomini. Perciò a. Qui non si bada principalmente alle conseguenze logiche ma al rilievo dei contenuti asseriti. È come se fosse stato loro richiesto non "quale conseguenza ne tiri?" ma "cosa sono le cose più importanti che vengono dette in queste frasi?". Devo sottolineare come i tre studenti siano tra i più bravi in matematica.

Anche qui era presente un insegnamento pregresso: una delle tre persone ha infatti esplicitamente asserito: "mi hanno sempre detto di badare alla sostanza quando leggo una frase".

 

II quesito

________________________________________________

 

Dei miei amici pochi hanno la villa al mare, ma tutti hanno l'automobile. Quindi:

Alcuni hanno sia l'automobile sia la villa al mare.

Alcuni hanno o la villa al mare o l'automobile.

_______________________________________________________________________________________

Tutti e 21 hanno risposto in maniera corretta, indicando la a; la giustificazione addotta in modo quasi unanime è che una lettura attenta della frase faceva capire come tutti avessero l'automobile, ma solo pochi la villa. Perciò a, non b, in quanto in b le due cose sono poste in maniera mutuamente esclusiva, di fronte a un "tutti hanno l'automobile" della frase precedente.

 

III quesito

________________________________________________

 

Aristide Tumisecchi è un giocatore bravo quanto Arturo Tumistufi. Arturo Tumistufi, come giocatore, è superiore alla media. Quindi:

Arturo Tumistufi è il capitano della squadra.

Aristide Tumisecchi è un giocatore superiore alla media.

Aristide Tumisecchi non è inferiore alla media.

_______________________________________________________________________________________

16 studenti indicano la risposta b (corretta), perché Tumisecchi è bravo tanto quanto Tumistufi a giocare (c'è, cioè, un rapporto di uguaglianza tra i due), pertanto se uno è superiore alla media anche l'altro lo sarà.

Due confessano di avere risposto a caso e quindi di mancare di una valida motivazione.

Tre, infine, dichiarano di avere indicato a, in quanto il capitano di una squadra è normalmente il giocatore leader (!). È vero che Tumistufi è uguale come capacità tecniche a Tumisecchi, ma è anche vero che il primo viene individuato come giocatore "singolo" nel periodo successivo, in una frase a parte, e pertanto deve avere una sua personalità! Anche qui le conoscenze "tacite" e gli apprendimenti precedenti prevalgono su ogni logica formale32. Ecco una dimostrazione concreta di come in senso proprio non si possa parlare di errori. Se uno parte da certi presupposti, allora quella data risposta è pienamente giustificabile!

 

IV quesito

________________________________________________

 

Il rombo ha quattro angoli. Questa figura non ha angoli. Quindi:

Questa figura è un cerchio.

Questa figura non è un quadrato.

Questa figura non è un rombo.

_______________________________________________________________________________________

Una grossa sorpresa di fronte a questo quesito apparentemente molto facile. La stragrande maggioranza degli alunni, 16, hanno risposto a (dando, quindi, un'indicazione non corretta). La giustificazione è stata che il cerchio non ha angoli e così si sono voluti mettere al sicuro. Hanno aggiunto che, se avessero scelto b o c, non avrebbero avuto la medesima certezza assoluta di una figura senza angoli. In altri termini b o c potrebbero lo stesso avere angoli, poiché in quelle due proposizioni si afferma quello che le figure non sono, non quello che esse sono!

Per dirla con parole diverse, è come se tutti e 16 avessero pensato che b e c connotano 2 figure concrete, appartenenti alla realtà esterna, diverse rispetto alla figura della frase affermante "Questa figura non ha angoli" e che si trattava di porre a confronto le "forme" (altre) della realtà con la figura della seconda frase. C'è stato come un passaggio fulmineo dal livello astratto a quello concreto e viceversa, grazie ad un momento di confusione dei piani! In tale confronto è parso, allora, che le due opzioni b e c non fornissero garanzie sufficienti di non avere angoli!

Solo 5 hanno indicato c (la risposta esatta) seguendo un percorso (tutto impostato sul livello astratto) di questo tipo: "Il rombo ha angoli, questa figura non ha angoli, quindi è un non rombo".

 

V quesito

________________________________________________

 

Gli studenti universitari possono partecipare al concorso di lettere. Tizio e Caio non partecipano al concorso. Quindi:

Alcuni studenti universitari non partecipano al concorso.

Tizio e Caio non sono studenti universitari.

Tizio e Caio sono studenti universitari, ma non partecipano al concorso.

_______________________________________________________________________________________

Bisogna subito dire che a questa domanda nessuno degli alunni ha risposto correttamente e che c'era da aspettarselo per il semplice fatto….che tutte e tre le opzioni disponibili sono scorrette. Mi pare naturale che ognuno si aspettasse come una continuazione della validità della regola tacita di prima (e, cioè, "la soluzione è senz'altro una tra quelle offerte"); tale cambiamento ha fatto sì che nessuno riflettesse su altre possibilità.

Andiamo ai risultati.

Uno studente indica a, in quanto la seconda frase della premessa "Tizio e Caio non partecipano al concorso", è da lui letta come un'appendice, una logica continuazione di "Gli studenti universitari possono partecipare al concorso"; quindi è come se Tizio e Caio non partecipassero, pur facendo parte dello stesso gruppo. Allora questa persona ha scelto a, che è un'espressione anche più "efficace" rispetto all'opzione c, tutto sommato comparabile quanto a significato.

Tre persone hanno, invece, scelto b perché hanno letto la frase "Tizio e Caio non partecipano al concorso" come se suonasse "non possono partecipare al concorso", pertanto ne hanno concluso che Tizio e Caio non sono studenti universitari.

La stragrande maggioranza invece, cioè 17 alunni, hanno cerchiato c (preferendola, perché più concreta, all'opzione comparabile, come s'è visto, a), per gli stessi motivi di base del discente che ha scelto a. Insomma Tizio e Caio vengono visti come facenti parte dello stesso gruppo di studenti universitari di cui si parla nella premessa, ma… non essendo questo concorso obbligatorio, non partecipano. Solo che nel caso di questi ragazzi ha prevalso c per la sua concretezza.

Al riguardo della quinta questione si sono, perciò, manifestati problemi più o meno seri di comprensione. Qualcuno è stato, comunque, un po' indotto forse a "forzare" il senso delle frasi, per potere rispondere, data l'assenza di una soluzione pienamente convincente.

 

VI quesito

________________________________________________

 

Una tartaruga deve salire una scala lunga dieci gradini. Ogni giorno sale due gradini e scivola indietro di un gradino.

Quando arriverà all'ultimo gradino?

Dopo dieci giorni.

Dopo nove giorni.

Dopo otto giorni.

_______________________________________________________________________________________

Una parte consistente della classe (14 alunni) sceglie "Dopo dieci giorni", specificando di avere compiuto due operazioni mentali: prima una semplice sottrazione (due scalini a salire meno uno a scendere dà una differenza di uno). Poi una moltiplicazione: dieci scalini moltiplicati uno (il guadagno netto per ogni giorno) fa dieci; quindi dieci giorni. Tutto sembra corretto, ma non lo è! In effetti la tartaruga arriverà dopo nove giorni! Tanti sembrano non prestare attenzione a quell'arriverà!

Solo sette persone daranno l'indicazione esatta. Due tra queste aggiungeranno anche considerazioni curiose, e tutto sommato non pertinenti, tra le altre che le hanno spinto a scegliere definitivamente nove come cifra corretta: una volta che la tartaruga arriverà al decimo gradino il nono giorno, non sarà mica così sciocca da scivolare indietro, cercherà di ancorarsi da qualche parte!

Il problema più evidente qui che si pone per chi ha fornito un numero inesatto mi pare quello di una mancanza di concentrazione (in cui un certo ruolo gioca la motivazione) e quindi di una lettura non fine.

 

VII quesito

______________________________________________

 

Paperino e Gastone hanno la stessa somma di denaro, ma Paperino ha più soldi di Qui, e Qui ne ha più di Quo. Qua, che ha più soldi di Quo, ma meno di Paperino, non ne ha tanti quanti Qui. E Gastone ne ha meno di Paperone.

Quo è più ricco di Gastone.

Qua non è più povero di Paperino.

Paperone è più ricco di Qui.

Paperino è più povero di Quo.

Qui non è più ricco di Qua.

_______________________________________________________________________________________

Venti persone danno la risposta esatta a questa domanda; dicono di avere fatto una scala delle ricchezze, di avere, cioè, creato una gerarchia tra le persone indicate e, pertanto, di avere concluso che, tra le opzioni menzionate, c è quella corretta perché effettivamente Paperone è più ricco di Qui. Qualcuno ha anche indicato di avere usato un qualche schema grafico per aiutarsi.

Solo uno studente afferma di avere scelto la risposta errata d, "perché così, ci sono andato ad intuito".

Evidentemente questa operazione di ordinamento dal minore al maggiore deve risultare abbastanza facile a quest'età (almeno per questo gruppo). Avrebbe potuto costituire problema il giocare del testo contemporaneamente con ricco e l'aggettivo marcato povero, ma nella realtà si è dimostrato che non è così.

 

VIII quesito

________________________________________________

 

Quando pensiamo, pensiamo qualche cosa. Del cane abbiamo l'idea. Quindi:

Pensiamo qualcosa del cane.

Pensiamo l'idea del cane.

È impossibile concludere.

_______________________________________________________________________________________

Solo 9 discenti indicheranno la risposta esatta c, giustificandola con l'affermazione che non hanno senso né ab, in quanto il fatto che noi " del cane abbiamo l'idea" non c'entra nulla con il pensare, con il pensare a cui ci si riferisce nella frase di prima.

9 ragazzi dicono invece a, in quanto asseriscono che "quando noi pensiamo, pensiamo sempre qualcosa, perciò pensiamo qualcosa del cane". La b è stata da loro scartata perché non avrebbe senso dire che pensiamo "l'idea del cane"; normalmente, essi aggiungono, non pensiamo "idee" ma cose.

Tre scelgono, infine, b, motivando la scelta con l'asserzione che se pensiamo ad un cane, pensiamo ad un cane completo, mica pensiamo a parti separate del cane!

Due osservazioni: innanzitutto l'esperienza concreta anche qui, in chi sbaglia (e non importa in quale direzione), prende il sopravvento e detta le sue regole rispetto ad una logica più formale (e quindi, ancora una volta, in senso proprio non si può parlare di errori, ma di logica altra).

In secondo luogo un fatto risaputo: un testo completo acquista il significato complessivo che ha in dipendenza del peso e dell'importanza che noi siamo disposti a concedere alle sue parti (oltre che in forza della risonanza che esse hanno dentro di noi sulla base della nostra particolarissima esperienza, cioè della nostra storia precedente).

 

IX quesito

________________________________________________

Se X è P, R è C. Quando R non è C, A non è P e neppure C. Quindi:

Quando R è C, P o C sono A.

Quando X è P, A non è P e neppure C.

Quando X non è P, A non è P né C.

_______________________________________________________________________________________

Due scelgono a, tre scelgono c, risposte entrambe errate, tutti e cinque così, senza nessuna vera giustificazione, a caso. 16 rispondono invece, correttamente, b, ma di fronte alla richiesta di giustificare la loro risposta tutti e 16 si sono trovati in difficoltà a tradurre in parole le motivazioni della scelta. È come se avessero intuito, ma non trovassero i termini esatti. Indubbiamente, penso, a ciò deve aver contribuito l'astrattezza del problema posto, le numerose negazioni e la difficoltà a tradurre in enti concreti (e quindi parole) le varie lettere. Ma per la medesima ragione penso anche che qualcuno tra costoro abbia risposto a caso.

 

X quesito

_____________________________________________________

 

Rinunciare non significherebbe disonore senza sconfitta, ma giocare non significherebbe perdere senza disonore. Quindi:

Giocare significherebbe sconfitta senza disonore.

Giocare significherebbe disonore senza sconfitta.

Rinunciare significherebbe sconfitta senza disonore.

____________________________________________________________________________________

Anche qui tutti gli alunni hanno sbagliato, per il semplice fatto….che nessuna delle tre opzioni era corretta. Ovviamente, come era successo per l'item 5, questa possibilità non era stata da loro nemmeno presa in considerazione (è come se tacitamente, appunto, non facesse parte delle regole del gioco). Quindi, sentendosi costretto ognuno a trovare la risposta in a oppure in b oppure in c, a ciò è giunto forzando il senso di "determinate" parti delle frasi.

Sei studenti hanno scelto a adducendo l'argomentazione che giocare e perdere non significherebbe disonore (a ciò molti di loro sono giunti partendo sostanzialmente dalla loro esperienza "sportiva": giocare è sempre meglio che rinunciare, c'è insomma più disonore a dare forfait. Ovviamente hanno letto la frase della premessa "ma giocare non significherebbe perdere senza disonore" al positivo, come se, cioè, suonasse "ma giocare significherebbe perdere senza disonore").

Due alunni hanno indicato b, asserendo che anche se si gioca con disonore, si può però vincere grazie alla fortuna, come se la affermazione b fosse la frase equivalente alla affermazione della premessa "rinunciare non significherebbe disonore senza sconfitta"; in definitiva hanno letto "rinunciare non significherebbe" come "giocare significherebbe".

Tredici alunni (la maggioranza relativa, dunque) hanno, infine, indicato c, affermando che chi rinuncia viene sì sconfitto (sono le regole del gioco!) ma che non c'è disonore nel rinunciare se si è sicuri che giocando comunque…..si verrebbe sonoramente battuti (quindi partendo da presupposizioni esperienziali diverse rispetto a chi ha indicato a- ovviamente avendo letto la premessa che regge tutto come se significasse proprio questo, cioè è meglio rinunciare che fare una figuraccia!).

La difficoltà di questo esercizio è indubbiamente data dalle tante negazioni presenti che….confondono la mente.

In una seconda occasione ho poi somministrato a questa stessa classe 15 item di natura diversa, tutti volti a sondare le loro abilità "spaziali". Non riporto qui i risultati per esigenza di sintesi. Affermo solo che le esperienze precedenti anche in questa seconda prova hanno giocato un ruolo determinante: esse erano disparate, ma centrale è risultato l'avere preso gusto a praticare durante l'infanzia, o subito dopo, giochi spaziali similari (ad es. quelli che si trovano sulla Settimana enigmistica).

 

Esistono gli "errori"?

 

Voglio concludere questa parte rimarcando ancora una volta come non si possa dire che la mente umana, anzi le menti di tanti uomini, siano sostanzialmente incapaci di ragionare correttamente.

Quando alcuni anni orsono negli esperimenti di laboratorio si sottoponevano le persone a prove di ragionamento di tipo deduttivo, si partiva dall'assunto che le risposte non corrette nelle conclusioni da trarre da certe premesse fossero da giudicare come deviazioni dalla norma, da quelle regole naturali (innate o quasi) vigenti nella nostra mente (posizione che potremmo definire logicistica33). L'assunto era, cioè, quello di testare la bontà dei meccanismi mentali, di verificare che fossero "registrati" a puntino. Alla fine si faceva il calcolo di quanti (pochi in genere!) avessero svolto gli esercizi con successo.

Ma altri hanno messo in dubbio che le varie prove di "deduzione" fossero un valido metro per giudicare la razionalità dell'uomo. Accanto al paradigma "deduttivo", esiste una logica che è stata definita "ecologica", adattiva, in cui uno non decide in maniera rigidamente formale, ma sulla base dei propri valori, delle proprie esperienze precedenti, delle aspettative. Nella vita è abbastanza comune affidarsi non a calcoli rigorosamente deduttivi (pressoché impossibili), ma probabilistici34.

Pertanto è più produttivo asserire come ci siano tante differenti razionalità, se uno assume correttamente che ogni quesito, ogni problema vengono affrontati e risolti sulla base delle proprie conoscenze precedenti, degli apprendimenti ed esperienze di prima.

Per questo motivo il lavoro di scavo alla ricerca dei sentieri nascosti seguiti, ad es. da un discente, per arrivare alla conclusione a cui arriva, è uno degli studi più affascinanti che si possano fare. Si scopre un mondo, si svela …un patrimonio nascosto.

Ovviamente questo non vuole dire che tutte le conclusioni, tutte le risposte siano egualmente accettabili ed intercambiabili tra di loro. Voglio, piuttosto, porre l'accento sull'importanza che assumono l'ottica personale ed il cammino individuale per quanto riguarda la comprensione dei problemi e le decisioni che conseguentemente vengono prese. Si può avere un'idea di questo peso, magari una vaga idea, leggendo le ragioni fornite dagli alunni della presente ricerca. D'altronde se uno vuole modificare qualcosa di questo cammino, a quell'ottica personale deve far necessariamente riferimento.

A questo punto non ha neppure importanza il problema annoso se le regole per discriminare i vari sillogismi siano veramente innate, o comunque precedenti l'esperienza, oppure se ne siano una seconda fase, il momento di formalizzazione dopo l'esperienza della realtà; se siano, cioè, modelli mentali rappresentanti possibili situazioni nel mondo o meno35. Il ruolo che essi hanno nella nostra esistenza pratica è veramente secondario (a parte che, come ho appena detto, è molto più produttivo scoprire il peso che essa esercita sui modelli).

Comunque, proprio per evitare estremizzazioni in un senso o in altro, qualcuno36 ha suggerito l'esistenza di una doppia logica, di un duplice sistema di lavoro per quanto riguarda la nostra mente. Nella vita non esisterebbe, insomma, un'unica tipologia di svolgimento dei nostri pensieri, ma saremmo guidati, a seconda delle circostanze, ora da una modalità di funzionamento ora dall'altra.

Spesso le nostre decisioni sono guidate da ragionamenti "istintivi" per cui si fa la scelta che si fa in maniera quasi naturale, veloce, pragmatica, associativa (secondo le similitudini con situazioni precedenti); tale processo, quasi istantaneo, è guidato da esperienze e credenze antecedenti "l'ora". Bisogna asserire che questo modo normalmente, e sottolineo il normalmente, dà buoni risultati nella vita pratica (quindi si devono respingere critiche aprioristiche sulla cosiddetta fondamentale irrazionalità dell'uomo).

Ma esistono anche ragionamenti più sofisticati, molto lenti, sequenziali, in cui i passi vengono verificati con cura; questa è la modalità di funzionamento che si sceglie quando si deve fare una dimostrazione formale o in certe discipline come la matematica. E tale processamento è quello che viene studiato e valutato normalmente nella psicologia cognitiva.

In conclusione, accanto alla razionalità misurata in laboratorio (che non nego abbia la sua importanza in certi contesti), esiste la vita pratica con i suoi apprendimenti. La normatività è importante; sapere se, cioè, l'alunno è capace di deduzioni logiche corrette è interessante, ma è molto più importante scoprire come arriva a certi risultati, qual è stata la sua esperienza pratica, sapere quello che avviene nella sua mente.

Un ruolo importantissimo nella mente dei discenti viene giocato dagli schemi. Di essi e del loro formarsi ho già parlato, ho sottolineato che essi debbono essere funzionali.

Ho rimarcato prima come in qualità di docenti dobbiamo essere interessati, più di quanto non lo siamo stati finora, alle impalcature che durante la sua storia di apprendimenti il discente ha generato e che strutturano la sua visione. Gli schemi sono essenziali.

Voglio ora sottolineare come senza queste impalcature un senso di confusione si impadronirebbe della mente dell'alunno.

 

Necessità degli schemi mentali

 

Quante volte gli stessi insegnanti hanno fatto l'esperienza di spiegare qualcosa ad uno studente che mancava delle basi essenziali, degli schematismi necessari per potere capire, per cui addirittura più essi tentavano di chiarire e specificare e più rendevano difficile e complicato l'argomento, dacché aggiungevano dettagli su dettagli senza che tali particolari potessero collegarsi in un quadro organico nella mente del discente e quindi servire a fugare i dubbi?

E paradossalmente il non comprendere non potrebbe anche essere visto tante volte come semplicemente un non accettare le piatte convenzioni di senso, gli schemi, i collegamenti già fissati da altri37? Cioè, anche in questo caso (come nel caso cui si faceva riferimento dianzi), non ci troviamo curiosamente di fronte ad a un eccesso di intelligenza? E se è così, l'intelligenza paradossalmente non andrebbe definita come un'abitudine, l'abitudine ad impostare le operazioni accettate e previste, l'abitudine a ragionare come gli altri, almeno per quanto riguarda operazioni che richiedono pensiero convergente?

 

Conclusione

 

Molti hanno sposato una visione naturale dell'intelligenza, direi quasi animale, considerandola cioè come appartenente al livello dell'animalità dell'uomo, di quelle caratteristiche immodificabili che esistono in noi. Allora essa c'è o non c'è. Non può, comunque, essere appresa. Allo stato attuale delle conoscenze qualsiasi affermazione perentoria di un comportamento più intelligente alla nascita costituisce comunque una conclusione ingenua ed ingiustificata dal punto di vista epistemologico. Le nostre osservazioni normalmente riguardano, invece, l'interfaccia psichica della cosa, il modo in cui certi fenomeni si determinano nel vissuto fin dai primissimi anni di vita.

C'è anche una visione evolutiva, storica dell'intelligenza: allora essa è la conseguenza delle esperienze precedenti di apprendimento. In questa visione in modo particolare le prime esperienze danno forma, significato e forza a tutto il resto. Cambiare è difficile, ma non è un compito impossibile. È anzi l'obiettivo di ogni vera educazione. E questa è la visione che a mio parere ogni docente dovrebbe sposare. In essa si parte dal presupposto che l'intelligenza sia sostanzialmente una qualità unica (sottolineo, come ho già fatto prima, non una, ma unica), in cui il disporre gli studenti su una scala ordinale per quanto riguarda le loro capacità (dal meno al più) non ha senso.

C'è infine anche una visione ingenua (di cui non ho parlato), intellettualistica dell'intelligenza, per cui basta semplicemente volere capire per potere capire, basta studiare per apprendere. Ma questa è una posizione superficiale.

 prof. Giuseppe Tidona

 

Ragusa, maggio 2003

 

 

Altri studi del prof. Giuseppe Tidona su questo sito:

 

Studiare e pensare: i risultati di un esperimento (maggio 2004)

Insegnare e apprendere (ottobre 2003)

    Il tema: quali metodiche per aiutare gli studenti nello sviluppo di idee? (gennaio 2003)

  Riflessività e creatività a scuola: le lezioni Co.R.T., un secondo esperimento. (settembre 2002)

Competenze e ... sesso (gennaio 2002)

E' possibile migliorare la creatività e la riflessività dei ragazzi? (settembre 2001)

 

 

Home Page

 

    Rivista culturale e del benessere olistico - La riproduzione dei contenuti è consentita per usi non commerciali, dietro autorizzazione dell'Editore.

Direttore: Pippo Palazzolo

Registrazione Tribunale di Ragusa n.8/96 - Direttore Responsabile: Faustina Morgante - Editore A.s.tr.um. Ragusa

Ultimo aggiornamento: 21 giugno 2011