Insegnare e apprendere

Su Insegnare e apprendere Impedimenti ad una vera riflessione Studenti capaci e studenti incapaci Competenze e È possibile migliorare la creatività e la riflessività dei ragazzi studiare e connettere Studiare aiuta a pensare? Creatività e riflessività

 

 

   

Lo studio seguente è stato presentato dal prof. Giuseppe Tidona al XII Congresso Nazionale dell'AIRIPA sui disturbi dell'apprendimento, organizzato presso l'Università di Novara dal 17 al 18 ottobre del 2003.

Insegnare e apprendere

  I risultati di una ricerca  

del prof. Giuseppe Tidona

 

 

Sommario

 

Con il presente contributo si intendono riferire i risultati di un'indagine svolta in provincia di Ragusa sulle metodologie di insegnamento-apprendimento.

Attraverso due questionari, uno distribuito ad alunni di diversa età, dalla IV elementare fino all'ultimo anno delle superiori (429 i questionari raccolti ed esaminati alla fine), e l'altro ad alcuni docenti delle medesime scuole (77 quelli ricevuti), sono stati verificati in primo luogo il grado di corrispondenza tra le metodologie di insegnamento e le modalità di apprendimento e, poi, il livello di sintonia delle concezioni profonde riguardo al significato delle attività di classe.

Due i risultati più importanti emersi: innanzitutto stili cognitivi e percezioni degli uni non sono in accordo con quelli degli altri. In secondo luogo alcuni fatti educativi vengono strutturalmente immaginati in maniera dicotomica: prima viene l'insegnamento e dopo l'apprendimento; prima viene l'apprendimento e dopo la valutazione. E' da ritenersi, però, che lo iato crei insuccesso.

Dall'indagine è nato il progetto di un intervento a largo spettro che si svolgerà nel 2003/2004 in collaborazione con il CSA (ex Provveditorato agli Studi) ed il Laboratorio educativo territoriale provinciale di Ragusa.

   

Insegnare e apprendere  

I risultati di una ricerca

 

 

Introduzione

 

Come studiano i nostri alunni? Che percezioni hanno dell'ambiente scolastico, dell'apprendere e delle varie modalità di insegnamento? E dall'altra parte, invece, quali sono le concezioni e le pratiche dominanti nel mondo dei docenti? Che corrispondenza, infine, c'è tra le due realtà?

La presente indagine nasce proprio per rispondere alle suddette domande. Sono stati allestiti all'uopo due questionari, uno indirizzato agli studenti, l'altro agli insegnanti.

Le ricerche in Italia e nel mondo sulle metodologie di studio sono abbastanza numerose ed esiste anche un'abbondante letteratura sul modo di apprendere1. Sono meno diffuse le ricerche volte piuttosto ad esaminare il grado in cui modalità e visioni degli uni siano funzionali alle modalità ed alle attese degli altri. Questa è la ragione per cui i due questionari sono stati impostati in modo da presentare uno sviluppo interno, in una certa misura, parallelo.

Mentre, però, lo strumento indirizzato ai discenti era composto da domande aperte (in modo da essere occasione anche di riflessione libera sui propri apprendimenti), le domande rivolte agli insegnanti erano "chiuse"-  per semplificare il loro lavoro ed anche per evitare "disquisizioni" e sottili distinguo, sempre possibili…in persone di cultura.

L'indagine è stata svolta in provincia di Ragusa ed ha riguardato un Istituto Tecnico Commerciale (3 le classi coinvolte, per un totale di 46 alunni), un Istituto Professionale per il Commercio (4 classi, per un totale di 75 alunni), un Liceo socio-psico-pedagogico (3 classi, per un totale di 40 alunni), un Liceo classico (3 classi, 61 alunni in tutto), una Scuola Media (2 classi, 30 alunni in tutto), una Scuola Elementare (10 classi, 177 gli alunni coinvolti, tutti di IV e V); i livelli precedenti non sono stati riguardati per una scelta esplicita, in quanto le modalità specifiche sono ancora abbastanza instabili, a parte che si sarebbe posto un problema di comprensione delle domande- lo strumento era unico per tutti gli Istituti.

 Dunque alla fine i questionari-alunni ricevuti ed esaminati sono stati 429. Indubbiamente ai fini di un corretto campionamento sarebbe stata preferibile una distribuzione a singoli piuttosto che a classi complete, ma ciò avrebbe comportato notevoli difficoltà logistiche e tempi di raccolta molto più lunghi. Ciò non ha inficiato l'analisi, in quanto è stato, comunque, possibile scorgere alcune tendenze che, essendo stabilmente presenti in tutte le componenti del campione, in ogni caso numeroso, o almeno in tutte le classi del medesimo grado, consentono di pervenire a determinate, sicure conclusioni.

Contemporaneamente è stata distribuita l'altra forma di questionario ad alcuni docenti delle medesime  scuole; non sono però stati coinvolti gli insegnanti che avevano somministrato lo strumento alle classi per evitare che essi nelle risposte fossero influenzati dalle riflessioni dei discenti di cui erano a conoscenza (non si dimentichi che le due forme erano "parallele").

I questionari raccolti alla fine sono stati 77 (14 compilati da docenti del Liceo socio-psico-pedagogico, 8 del Liceo classico, 15 delle Elementari, 24 della Scuola Media, 16 dell'Istituto Tecnico Commerciale). Tutti i questionari (sia alunni che docenti) sono stati compilati in maniera anonima.

   

Modello teorico di riferimento dei due questionari

  

Le domande della forma-studenti (aperte, come s'è già detto) erano diciassette, nove invece le domande strutturate per gli insegnanti. I due questionari vengono riportati in "Appendici e tabulati".

Il rispondere alle domande di un questionario, in quanto forma di autovalutazione, ha indubbiamente dei limiti ben precisi, alla pari di ogni altra modalità di "self report" (vedi, ad es. tutte le stime basate sulla scelta del soggetto di collocarsi in uno degli intervalli determinati da una scala "Likert").

Ma limiti altrettanto sostanziosi, se non ancora più gravi, presenta ogni analisi fondata sullo svolgimento di compiti specifici assegnati al soggetto in osservazione. Questa modalità, apparentemente più "oggettiva", in realtà è inficiata dal fatto che misura in maniera indebita delle componenti di "abilità", proprie di qualsiasi esercizio che comporti un'esecuzione specifica. Solo che quando si misurano stili o, come nel presente caso, sistemi di apprendimento- insegnamento, non si vogliono valutare delle abilità ma delle preferenze o "inclinazioni" solidificate. Pertanto, in una considerazione complessiva dei limiti propri di ogni tipologia di assessment, la forma questionario è stata scelta in quanto risulta di più agevole uso.

Reputo ora necessario illustrare brevemente la concezione teorica che ha guidato la costruzione dei due strumenti ed esporre la logica che ha portato alla scelta ed all'inserimento di alcune domande piuttosto che altre- sempre possibili.

Gli studi sugli stili cognitivi, prima, e sugli stili di apprendimento, poi, sono stati tanti (ed il filone continua tuttora ad essere oggetto di attenzione da parte di molti studiosi).

Lo stile cognitivo è una variabile semplice, normalmente a due stati, di funzionamento della mente. Essa ha cioè caratteristiche per lo più bipolari (ad es. analitico-globale, dipendente-indipendente dal campo, ecc.).

Sennonché non c'è stato accordo tra gli studiosi per quanto riguarda gli assi attorno a cui ruoterebbe la processazione dell'informazione (per usare un'analogia che accosta il nostro cervello ad un computer). C'è stato dunque tutto un fiorire di ipotesi che spesso si sono accavallate o smentite a vicenda, creando confusione (anche se Riding recentemente ha ricondotti gli stili in buona sostanza a due sole dimensioni- vedi più avanti).

Quando gli studi sugli stili si sono trasferiti, poi, agli ambiti scolastici, allora s'è parlato di stili di apprendimento. Essi sarebbero l'utilizzo, l'applicazione e l'adattamento dei primi da parte di individui che si trovano a studiare in situazioni "formalizzate".

Perché si possa parlare di stile in quanto tale, ci dovrebbe inoltre essere un utilizzo caratteristico e pressoché stabile (attraverso, cioè, numerosi compiti) di determinate modalità da parte della persona in questione. Per un esame della letteratura ed una possibile catalogazione delle varie teorie in merito, si veda, comunque, Sternberg2. Lo stesso Sternberg, autore di una sua teoria sugli stili di pensiero (che sono, però, stili di produzione delle idee invece che del loro apprendimento), è stato comunque uno dei pochi a confrontare i modi prediletti dagli insegnanti con quelli degli allievi, predisponendo anche degli strumenti di misura3.

Ora io credo che nella situazione di apprendimento la nozione di stile cognitivo sia troppo ristretta. Indubbiamente alcune di queste variabili (a due stati, come abbiamo visto) hanno grande importanza (e domande relative ad esse da me sono state inserite nel questionario). Ma queste non possono spiegare completamente la grande variabilità che esiste nel mondo della scuola. Ci sono altri fattori da prendere in considerazione.

Per le suddette ragioni io penso che sia più utile parlare di sistemi o strutture di apprendimento (e, sull'altro versante, di sistemi o strutture di insegnamento, che nascono, in buona misura, dalle personali convinzioni riguardo ai primi). Tali sistemi non sono, appunto, costituiti soltanto dagli stili cognitivi (alcuni dei quali hanno comunque più peso rispetto ad altri nelle più tipiche situazioni di apprendimento- e penso agli stili analitico- globale e a quello verbale- visivo, da qui la scelta di introdurre domande specifiche nel questionario).

 A mio parere grande rilevanza hanno anche le personali convinzioni riguardo agli stili, assieme alle proprie percezioni concernenti le condizioni di apprendimento ed assieme alle abitudini in qualunque modo inveterate di studio: il tutto viene a solidificarsi in vere e proprie costellazioni stabili e persistenti nel tempo, attraverso le varie discipline e le fasi della propria carriera scolastica.

I sistemi di apprendimento (o, sull'altro versante, di insegnamento) si costituiscono, pertanto, sull'incontro di tre fattori: il primo è rappresentato dall'insieme degli orientamenti della personalità (e gli stili vanno collocati molto probabilmente all'interno di quest'area, se è vero che essi hanno radici profonde e, forse, correlati fisiologici), il secondo dal complesso delle pratiche concrete solidificate ed il terzo dal novero delle proprie convinzioni e credenze. Possiamo topograficamente rappresentarli come tre cerchi che si sovrappongono parzialmente (vedi fig.1).

 

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Figura 1: Esempio di sovrapposizione dei tre fattori "orientamento della personalità", "pratica concreta solidificata" e "credenza o convinzione".

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Le attività più stabilmente adottate sono quelle che cadono all'interno delle tre aree, dei tre cerchi (ed esse sono le più difficili da modificare in uno studente).

Da questo punto di vista io credo che la ricerca in generale abbia dato una grande importanza agli stili ed agli orientamenti concepiti da un punto di vista "naturalistico", trascurando, però, l'importanza delle abitudini acquisite, stabilizzate e delle credenze in qualunque modo maturate.

In genere le suddette costellazioni (o sistemi) vengono a formarsi ben presto nella vita del discente (e qualcuno di essi diventerà docente, perpetuando ed adattando alla nuova condizione le sue inclinazioni!), come conseguenza appunto della sua personalità, delle sue esperienze passate di apprendimento e di convinzioni profondamente radicate che in genere attraversano tutto il percorso formativo.

Ma è possibile ordinare teoricamente, catalogare tutto quanto concretamente riguarda lo studio? Si può dare razionalmente conto della varietà dei modi specifici di apprendere sposati dagli alunni? E' concepibile un modello che inquadri ciò che a prima vista sembra eterogeneo?

Io non credo che un tale compito sia irrealizzabile. Basta fare riferimento alle diverse fasi che compongono l'esperienza di apprendimento (o di insegnamento)4: allora il discorso diventa abbastanza semplice.

Un modello teorico, che renda conto della varietà di profili che vengono a delinearsi anche in indagini come questa, può essere composto dalle quattro classi di strategie (che sono da intendere soprattutto come modi concreti, non quindi qualcosa che vada necessariamente sul piano della metariflessione) inerenti agli stadi tipici di ogni pratica di apprendimento:

 

1.     innanzitutto ci sono le strategie stimolative attinenti allo stadio dell'inizio e costituenti quella che per comodità possiamo definire la classe A. Ci si prepara a studiare. Si compiono i riti "propiziatori" adatti. Si tentano modi per "caricarsi" in maniera opportuna (ad es., bevendo un bicchiere d'acqua, mangiando una caramella, facendo una capriola oppure, in classe, arrivando per tempo, in modo da chiacchierare con gli amici, piuttosto che, all'opposto, sempre per ultimo, ecc., ecc.). Si preparano anche i materiali occorrenti prima di cominciare; si predispongono cuscini sulla sedia, penne, portapenne, astuccio sul banco, a scuola, oppure sul tavolo, a casa, ecc. Si crea l'atmosfera adatta (silenzio, oppure, all'opposto, musica, radio, TV, ecc.); si decide se studiare da soli oppure in compagnia. Si cercano o si ripetono, qualche volta, le ragioni per cui fare quello che è necessario fare.

Anche dal versante dell'insegnante si compiono procedimenti similari prima di iniziare la lezione. Il problema dell'attacco, della giusta concentrazione per cominciare è essenziale;

 

2.     c'è, poi, la classe delle strategie attentive riguardanti lo stadio della continuazione (o classe B). Non basta cominciare, bisogna anche continuare; è facile, molto facile per l'attenzione andare a ramengo (e questo può succedere ad …ogni frazione di secondo). È necessario utilizzare strumenti per continuare nel proprio lavoro, dargli trama, evitare che esso si fratturi. Si può utilizzare, ad es. l'evidenziatore o la matita come guida per i propri occhi (e quindi….anche per la propria mente). In classe si può decidere, ad es., di prendere appunti, per costringersi a stare attenti. Sul versante degli insegnanti, essi imposteranno le loro lezioni in modo da mantenere viva l'attenzione dei discenti (oltre che ovviamente… la propria); passeggeranno tra i banchi piuttosto che stare fermi; moduleranno il tono della voce invece che tenerne uno monocorde; scriveranno alla lavagna oppure no: il tutto, comunque sulla base delle proprie abitudini e persuasioni;

 

3.     la terza classe (classe C) è quella delle strategie ritentive afferenti allo stadio dell'apprendimento vero e proprio, inteso sia come comprensione delle cose studiate sia come loro memorizzazione. Rientrano qua gli stili cognitivi e le abitudini conseguenti: leggere analiticamente o dare in sua vece una veloce scorsa al testo; guardare soprattutto le figure o cercare di capire "computando" le frasi. Non meno importanti sono le strategie per non dimenticare quanto appreso (ad es., ripetere più volte a voce alta oppure in silenzio, usare schemi scritti, mappe, associazioni con immagini oppure no). Fanno parte di questa terza categoria anche tutte quelle decisioni che riguardano il modo in cui in classe si segue concretamente: individuare sul testo le parti esposte dall'insegnante oppure no, farsi un quadro generale di quello che si sta dicendo in classe e ripeterselo mentalmente oppure rinviare tutto al lavoro di casa, ecc., ecc. Queste scelte impostano in un certo modo l'apprendimento.

Dal versante dell'insegnante molto importanti sono i convincimenti personali che il docente si è formato e che diventano consigli per gli alunni (ad es.: "Quando studiate è meglio ripetere a voce alta", ecc.). Ma non meno significative sono abitudini come utilizzare immagini durante la propria lezione oppure no.

 

4.     c'è in ultimo la classe delle strategie risolutive (classe D) riguardanti il possibile superamento dello stadio delle difficoltà. Ogni studio comporta dei problemi (di natura cognitiva o personale, non importa). Le metodologie adottate in merito consentiranno di avviare a conclusione o meno il proprio lavoro. Ci possono essere delle parti non chiare; concetti che si pensava avere compreso, in effetti risultano ostici. Cosa si fa? Si telefona ad un amico oppure no? Si aspetta il giorno dopo per dirlo al docente? Si rinuncia a capire o, invece, si hanno strategie per risolvere in proprio il problema? Rientrano in questa categoria le percezioni di autoefficacia e tutte le problematiche concernenti l'attribuzione5. Non meno importanti sono le decisioni riguardanti il come gestire la stanchezza da una parte, dall'altra parte le previsioni di stanchezza, che comportano scelte sulla lunghezza delle unità di apprendimento nello studio in proprio e determinano la concreta conduzione delle attività di classe da parte del docente.

Un discorso analogo bisognerebbe svolgere per quanto riguarda la gestione dello stress sia in classe che a casa. Quali modalità si attuano per scaricarlo?

Per quanto riguarda i docenti, quando si trovano di fronte ad alunni in difficoltà, quali consigli danno per il superamento degli ostacoli? E quali sono le loro teorie "implicite" della mente? Cosa pensano delle capacità e delle possibilità di successo di  ciascun allievo?6

 

In ognuno di questi stadi c'è un sapere ed un fare. Una convinzione ed una pratica specifica. Non necessariamente il sapere è di tipo sofisticato, capace di autogiustificarsi pienamente (spesso la risposta più comune che si ascolta è, infatti, "faccio così perché capisco che mi viene meglio, ma non saprei dire perché mi viene meglio"). Lo stesso discorso vale per certi versi anche per i docenti.

E' chiaro che alcune strategie possono appartenere contemporaneamente a più di un'area, dal momento che svolgono parecchie funzioni nelle stesso tempo. Ma può anche capitare che una strategia adempia a finalità non proprie, impreviste e senza che se ne sia del tutto consapevoli. Ad esempio il ripetere a voce alta, postulato spesso come un modo per memorizzare meglio i concetti (classe B), è in realtà soprattutto una maniera di gestire l'ansia (classe D). Questo è il motivo per cui quando i docenti vogliono imporre un modo silenzioso di studiare (indubbiamente più veloce), incontrano difficoltà inaspettate nel cambiare la vecchia abitudine. In altri termini molti interventi falliscono perché propongono la classe errata di strategie.

Io ritengo essenziale che si inizi ad individuare con esattezza, date le quattro classi previste dal presente modello, a quale livello (o a quali livelli) le difficoltà si pongono, per potere prospettare  le soluzioni idonee. 

Dunque, ricapitolando, le quattro aree (o, in termini di processo, fasi) sono:

1.     la fase dei preparativi, del settaggio dell'ambiente e della persona;

2.     la fase della continuazione, del cercare di mantenere desta l'attenzione;

3.     la fase della fissazione dei concetti, ovvero il nocciolo di tutto il processo;

4.     infine la fase di superamento delle difficoltà, degli ostacoli e dei limiti.

Lo studio, al pari di ogni esperienza vera, è come una spedizione avventurosa. Pensiamo ad un lungo viaggio in macchina: all'inizio c'è la preparazione con i relativi riti (alcune persone, ad es., amano farsi il segno della croce prima di iniziare un qualsiasi viaggio, anche non necessariamente… avventuroso).

 Durante l'itinerario si mettono in atto, poi, delle azioni per mantenere viva l'attenzione ed evitare distrazioni che potrebbero costare caro: ad es., si mantiene ben aerato l'abitacolo, si lascia la radio accesa, ecc.

Per arrivare a destinazione bisogna, però, "fissare" l'itinerario ed avere strategie per non andare fuori tragitto; si possono seguire i chilometri sul contachilometri e vedere quanti ne mancano all'arrivo oppure  si possono guardare tutti i segnali indicanti le varie località, seguendo così il percorso passo passo, oppure si può più semplicemente scegliere di stare attento solo al segnale indicante l'uscita prima di quella a cui bisogna svoltare in modo da regolarsi di conseguenza, ecc., ecc.  Sono tutte strategie utili ad andare in una certa direzione.

Ma bisogna sapere far fronte anche agli imprevisti, ad es. al cattivo tempo oppure ad una foratura, a un guasto al motore, ecc.. Per giungere alla meta è necessario essere ricchi di risorse sui modi per superare gli ostacoli.

Così è anche lo studio.

Date queste quattro aree, problemi possono verificarsi in ciascuna di esse. Certi modi, ad es., di predisporre l'ambiente per lo studio possono risultare non particolarmente funzionali; determinate abitudini inveterate del secondo stadio è probabile che non mantengano viva l'attenzione così come sperato; oppure, per la terza area, è presumibile che la consuetudine di ripetere a voce alta si riveli prima o poi particolarmente costosa e che quindi non conceda risultati pari agli sforzi, ecc., ecc.

Sicuramente il problema è abbastanza serio quando malauguratamente difficoltà si pongono a tutti e quattro gli stadi.

Bisogna, però, dire che nessuna strategia è in assoluto disfunzionale: tutto dipende dal sistema in cui è inserita e dal posto che vi tiene. Qualche volta maniere giudicate in astratto come poco efficaci svolgono nonostante tutto un ruolo positivo nella realtà concreta della persona. Al contrario espedienti pensati come utili fanno poi smarrire il discente nel suo cammino apprenditivo.

I modi adottati da ognuno sono, è il caso di rimarcarlo, il portato delle proprie esperienze pregresse e di determinate caratteristiche individuali. Sono cioè il frutto dell'incontro di certi contesti apprenditivi, di pratiche svolte, e ben presto adottate, con orientamenti della personalità. Pertanto essi non vanno giudicati in astratto, nel vuoto. Solo la situazione concreta decide la bontà di una data soluzione.

Data la complessità del problema cosa può fare il docente nella realtà della classe? Ha ancora un senso l'insegnare a studiare?

Se uno pensa in termini prescrittivi è sicuramente fuori strada; l'imposizione di una particolare metodologia funziona solo parzialmente e finché continua ad essere sotto il controllo di un esperto; appena cessa di essere ordinata non viene più adottata.

Gli insegnanti che alcuni decenni addietro, quando ciò andava particolarmente di moda, iniziavano l'anno scolastico con un ciclo di lezioni sul modo corretto di studiare, o sulla maniera di prendere appunti, si trovavano subito di fronte a reazioni del tipo "Non solo dobbiamo studiare, ma dobbiamo studiare anche.…come studiare!". Il tutto diventava presto una brutta complicazione.

Se da un punto di vista cognitivo l'oggetto dell'apprendimento diventa il come e non il cosa, allora paradossalmente ci troviamo a parlare di altro, ovvero siamo ancora sul cosa, solo che è un altro cosa rispetto a prima! In parole semplici il nuovo apprendimento che stiamo proponendo verrà vissuto, inaspettatamente, con le vecchie modalità di prima, magari solo superficialmente modificate!

Perché si possa produrre del nuovo, autentico, è necessario praticare un doppio ritorno. Dapprima gli apprendimenti si svolgono e devono svolgersi naturalmente, in maniera spontanea, esplorativa, secondo gusti ed inclinazioni personali. Essi acquistano così un proprio rilievo, in tanto in quanto le strutture cognitive trovano una loro sistemazione. Qualsiasi altra soluzione svierebbe il processo, lo snaturerebbe.

Dopo, su invito del docente, si può ritornare per ripetere la pratica di apprendimento, esperendo nuove modalità. Esse devono essere proposte e vissute in maniera quasi ludica, come una nuova avventura. Alla fine di questa seconda volta si può tentare di tematizzare quanto vissuto a livello personale. Quindi, solo a questo punto, sulla base delle nuove esperienze vissute ognuno può tentare di aggiustare il tiro, se lo vuole.

Qualsiasi sforzo teso a rendere più efficace il modo di studiare del discente può darsi solo su base propositivo-esperienziale, non teorico-prescrittiva. In altri termini, ha un senso solo se si presenta come arricchimento del patrimonio di esperienze di apprendimento di ognuno 7.

 

La struttura dei due questionari

   

Dato per scontato che è errato imporre ricette su come si studia, da parte di chicchessia, è importante scoprire, nello stesso tempo, fino a che punto i due sistemi, quello dell'apprendimento e quello dell'insegnamento, si corrispondano e si aiutino a vicenda (e ciò può avvenire più o meno esplicitamente) o, al contrario, fino che a punto, interferiscano e si intralcino.

Non si dimentichi che c'è una tendenza generale che non bisogna sottovalutare: in genere si tende a vedere il proprio sistema (di apprendimento ed anche di insegnamento) come l'unico possibile, od il migliore (per una sorta di egocentrismo cognitivo), ove se ne intravedono altri.

Questa è la ragione per cui i due questionari, come detto prima, sono in un certo modo speculari uno all'altro: per scoprire le correlazioni tra i due sistemi.

Una volta esposto il modello teorico di riferimento che sta dietro i due questionari, è anche possibile, ed abbastanza semplice, illustrare la logica delle domande (sia nello strumento indirizzato ai discenti che in quello volto ai docenti). Ecco le aree di riferimento (si ribadisce quanto già detto precedentemente, cioè che alcune domande possono essere considerate legittimamente come appartenenti a più di un'area):

 

1.     area delle strategie stimolative. Questionario alunni: domande 2, 4, 5. Questionario docenti: domanda 7

 

2.     area delle strategie attentive. Questionario alunni: domande 1, 3, 12, 14. Questionario docenti: domande 1, 2, 3, 9

 

3.     area delle strategie ritentive. Questionario alunni: domande 6, 7, 11, 15, 16. Questionario docenti: domande 5, 6

 

4.     area delle strategie risolutive. Questionario alunni: domande 8, 9, 10, 13. Questionario docenti: domande 4, 8.

 

Per evitare di appesantire i due strumenti, non necessariamente tutti gli argomenti presenti in uno dei due questionari sono  stati trattati anche nell'altro. Il parallelismo è imperfetto perché quando c'erano ragioni per ritenere scontate o facilmente prevedibili le risposte di una delle due componenti oggetto dell'indagine, le relative domande non sono state inserite in quel questionario. Ad es. nello strumento indirizzato agli insegnanti non è stata inserita una domanda sul sottolineare (che invece è presente nell'altra forma), perché c'erano elementi per supporre che i colleghi non avessero mai affrontato l'argomento in classe.

   

Considerazioni sui dati

   

Ovviamente le domande sopra indicate non esauriscono i temi possibili riguardo alle quattro classi di strategie. Esse sono, però, abbastanza significative.

I dati completi vengono riportati in appendice accanto ad ogni domanda. Qui voglio svolgere alcune considerazioni sugli aspetti salienti della ricerca. Innanzitutto, come s'è già peraltro detto, il questionario alunni era "aperto" (ma non è stato difficile codificare le varie risposte in poche tipologie standardizzate), mentre lo strumento indirizzato ai docenti era "chiuso".

 E' necessario avanzare anche una seconda riflessione che è in effetti una specificazione: qualsiasi osservazione avanzata nella presente ricerca sulla corrispondenza tra sistemi di insegnamento e sistemi di apprendimento vale per i dati nel loro complesso (o per gradi). Insomma non è stato svolto, era impossibile farlo data la particolare distribuzione dei questionari, nessun confronto nell'ambito della specifica classe tra quei discenti ed i loro docenti.

Andiamo ora per aree.

 

 

I^ area: strategie stimolative (o classe A)

 

 

Per quanto riguarda la prima area (quella delle strategie stimolative), e nello specifico la domanda n. 2 del I questionario in appendice, la maggioranza degli alunni sceglie di studiare nella propria stanza (50,1%); e ciò avviene (secondo le giustificazioni maggiormente riportate dagli stessi studenti) in quanto ci sono le proprie cose, ci si sente a proprio agio, essendo da soli, c'è il letto ed in qualsiasi momento ci si può sdraiare sopra (qualcuno preferisce addirittura studiare stando seduto sul letto, magari sulle proprie gambe incrociate), ecc., ecc.

La cucina come preferenze risulta al secondo posto (con il 23,3%), con un picco di opzioni alle elementari (38,9%), in quanto, come viene detto, "c'è la mamma e può aiutare nella svolgimento dei compiti" oppure per la semplice ragione che la cucina è la stanza più calda d'inverno e che in qualsiasi momento c'è sempre qualcosa a portata di mano da mangiucchiare o da bere, per scaricare la tensione.

Sarebbe interessante scoprire come la stessa postura di studio (ma nel questionario non era stata inserita nessuna domanda specifica al riguardo) riesca ad interagire con l'andamento e l'efficacia dell'apprendimento.

 E' chiaro che in presenza di frequenti distrazioni (cosa che è probabile che succeda in cucina) il ritmo non può essere spedito. Ma neanche la propria stanza deve essere considerata al riparo da inconvenienti, perché una buona percentuale (il 12,1%) decide di studiare talvolta in altre stanze rispetto alla propria per la presenza disturbante in essa di fratelli o sorelle, ecc.

La domanda n. 2  non aveva, ovviamente, un corrispettivo nel questionario docenti.

L'atmosfera scelta dal 70,6 degli alunni è quella del silenzio (v. domanda n. 4 del I questionario in appendice). Ma questa percentuale diminuisce man mano che si sale nei gradi (quasi ci fosse, in contemporanea, il crescere di un rumore interno che ha bisogno di un corrispettivo esterno per essere soppresso!); infatti si scende dall'81,9% delle elementari al 53,3% dell'Istituto professionale.

Per chi sceglie di studiare sempre con un sottofondo risulta più gettonata la musica (con l'11,9%, ma alcuni in questo gruppo sostengono che preferiscono qualsiasi cosa che faccia rumore, non solo musica, anche familiari che strillano, l'importante è non avere silenzio, perché in esso si distrarrebbero subito!).

Io credo che questa differenza  nella scelta del silenzio tra le elementari (come s'è detto all'81,9%) e le superiori (complessivamente al 60%) abbia una seconda ragione oltre che la prima avanzata sopra. E' probabile che alle elementari molto più che alle superiori lo studio venga vissuto come un'avventura cognitiva e quindi con più interesse. Se la situazione è questa, ecco spiegata allora l'assenza di controspinte interne in chi è di età inferiore.

Infine una certa percentuale (l'11,2%) decide come stimolarsi sulla base dei compiti. Molti tra questi scelgono la musica solo per gli scritti o gli esercizi (ad es. di matematica) oppure per aiutarsi a capire - quasi che la musica espandesse le proprie capacità intellettive -, ma non a studiare, in quanto lo studiare è soprattutto inteso come un ripetere a voce alta e pertanto la musica interferirebbe!

Neanche la domanda n. 4 aveva un corrispettivo nel questionario docenti.

Infine la stragrande maggioranza si sente più spronata a studiare (vedi domanda n. 5 del I questionario in appendice) se è da sola (il 70,6%), il 17,2% di alunni, invece, studia, con una certa frequenza, in compagnia di amici. Comunque si studia da soli di più alle elementari (78,5%) che alle superiori (64% circa). E questo è facilmente spiegabile sulla base del progresso della socializzazione del discente.

Chi studia da solo adduce come giustificazione ricorrente e dominante quella che così riesce a concentrarsi meglio, in quanto con gli amici si metterebbe a scherzare e perderebbe tempo. Qualcuno di questo gruppo, una minoranza, asserisce, invece, che per capire bene i concetti non ci deve essere la presenza di compagni, perché si potrebbe essere condizionati e sviati dalle loro spiegazioni. Veramente curioso quello che più di un  bambino delle elementari ha scritto:  "Io ho trovato un mio metodo di studio e non voglio che i miei compagni lo copino"; oppure "Io ho paura che la mia amica mi rubi poi le idee ed i pensieri se studiamo assieme" ed espressioni similari.

Chi studia con gli altri lo fa perché "così gli amici ti possono dare una mano"; oppure  per il fatto che "durante le pause possiamo scherzare ed allora lo studiare pesa di meno" o, infine, per la ragione che "così posso ripetere la materia all'amico".

Un 8,4% di studenti infine sceglie come studiare sulla base dei compiti. Infatti essi affermano che se i compiti sono scritti allora li fanno in compagnia (e questo vale soprattutto per matematica!); oppure se non hanno capito qualcosa di importante e difficile allora vanno a casa dell'amico "bravo" o, ancora, dicono che, se si deve solo ripassare, è meglio farlo con altri.

Per quanto riguarda i docenti, solo un 9,6% non saprebbe se offrire il suggerimento di studiare da soli o in compagnia (vedi domanda n. 7 del II questionario in appendice). Sicuramente in questo caso c'è una certa sovrapposizione con l'area quarta (quella delle strategie risolutive): è ipotizzabile che la ragione per cui la maggioranza relativa dei docenti (il 47,9%) consiglierebbe di studiare con gli amici è perché vi vede un modo per superare eventuali difficoltà.

Comunque è da rimarcare la differenza di percezioni e situazioni tra quello che pensano e fanno i discenti e quello in cui credono e verso cui spingono gli insegnanti. Gli studenti pensano che sia meglio studiare da soli, non così i docenti (almeno la loro maggioranza relativa). Indubbiamente entrambe le posizioni sono legittimate da concrete esperienze specifiche.

 Per superare la contraddizione si potrebbe tentare di introdurre nelle classi forme guidate di apprendimento cooperativo che superino quella sensazione di perdita di tempo o di fastidio riferita al riguardo dai ragazzi, avendo al contempo i benefici dello studiare assieme ipotizzati dai docenti, soprattutto quello del superare, grazie all'aiuto mutuo, le difficoltà e del favorire al contempo un processo identificativo.

   

II^ area: strategie attentive (o classe B)

 

Le sorprese!

 

Ma i risultati forse più sorprendenti arrivano dall'area 2, quella delle strategie attentive, per una discrepanza vistosa tra le percezioni e le convinzioni profonde dei docenti e quelle degli alunni. Da parte dei primi (vedi la domanda n.1 del II questionario in appendice) si pensa che il docente ideale, capace di catturare l'attenzione di tutti, sia la persona in grado di offrire una buona spiegazione orale (al 64,9%), con una significativa differenza tra insegnanti elementari, il  33,3% di loro pensa ciò, e gli insegnanti delle medie e superiori che si riferiscono a questa opzione al 71% circa. Devo aggiungere che anche quel 33,3% delle elementari, alla seconda domanda (vedi appendice, II questionario), la quale era stata aggiunta quasi come "verifica" per evitare che gli insegnanti dessero solo delle risposte "politicamente corrette" - nella seconda avrebbero potuto sentirsi più liberi e quindi dare risposte più sincere, del resto si parlava d'altri!-, ebbene quel 33,3% diventerà un sonoro 75%  asserente che la pratica più diffusa è la spiegazione tradizionale!

Dall'altra parte (vedi domanda n. 1 del I questionario in appendice), invece, la maggioranza degli alunni, con il 58,7%, preferisce, come modo per tenere più desta l'attenzione, la lettura del testo intervallata da commenti da parte dell'insegnante (a comporre questa media finale concorrono il 63% di studenti di medie e superiori - e tra loro la punta più bassa è del liceo classico con il 54% circa- ed il 52,5% di bambini delle elementari, che è la cifra più esigua in assoluto: a quest'età la narratività e l'oralità hanno ancora un peso leggermente superiore). Complessivamente solo il 32,4% di discenti preferisce la spiegazione tradizionale.

Tale discrepanza tra docenti e discenti su questo punto trova un'ulteriore conferma nelle risposte alle domande n.13 del I questionario e n. 4 del II questionario (IV area, vedi i risultati sotto).

Quali sono le motivazioni dietro questi dati?

Da una parte c'è la formazione dei docenti fortemente basata sull'oralità assieme ad una certa tradizione scolastica che ha addentellati soprattutto nella cultura retorico- umanistica. L'insegnante in un certo senso potrà dimostrare di essere bravo solo se sarà in grado di esporre senza fare riferimento ad un testo; qualsiasi richiamo ad esso potrebbe far nascere  il sospetto, almeno è ciò che lui teme, che "non sappia la materia".

Ma dall'altra parte c'è il discente che ha esigenze diverse: non giudicherà la bravura tanto sulla capacità di parlare di chi gli sta di fronte facendo leva solo sui pensieri, ma sulla base della facilità con cui lui riuscirà a seguire e ad apprendere.

Infatti le giustificazioni addotte dagli alunni sono in massima parte del tipo "con la lettura se mi distraggo posso sempre recuperare", "visto che ci sono degli intervalli e possiamo intervenire più frequentemente, la lezione sarà più partecipata ed anche più rilassante", "abbiamo già fatto l'esperienza e mi sembra interessante, l'unica lettura che non mi piace, quando è interrotta dai commenti dell'insegnante, è la narrativa!", "se non capisco alcuni passaggi possono subito chiedere al docente il significato di quelle espressioni", "i docenti spesso parlano, parlano e uno magari capisce, ma quando poi deve studiare, non trova più sul testo quello che ha detto l'insegnante ed allora tutto si complica", "quando leggiamo, possiamo nelle stesso momento già cominciare a studiare", " se noi leggiamo da un testo viene con questo ad essere ben delimitato quello che poi vorrà sapere l'insegnante e così non resta nel vago", ecc., ecc.

Alcune delle espressioni che ho citato mettono a fuoco uno tra i problemi più spinosi che nelle classi ci si trova a vivere oggi, quello, cioè, della separazione tra lezione e studio da una parte, a cui poi si aggiunge anche lo iato tra studio  e valutazione dall'altra. L'esperienza insegna che queste fratture provocano dispersione nella scuola.

Ovviamente la lettura "commentata" non è né l'unica né, forse, la migliore possibilità tra quante si possono immaginare per superare la disomogeneità tra concezioni ed esigenze dei docenti e quelle dei discenti. Si può pensare, ad es., ad un uso più frequente nella scuola degli organizzatori grafici (soprattutto dei cosiddetti organizzatori avanzati), ad una presa degli appunti guidata dall'insegnante (da non confondersi con la loro dettatura!), a lezioni interattive e dialogiche (interruzioni continue da parte del docente e riesposizione del contenuto da parte di alcuni degli alunni, ecc., ecc.). Centrale, in ognuno di questi modi, deve rimanere il riferimento al testo (a meno che…non pensiamo di abolirlo!).

Per quanto riguarda gli appunti (vedi domanda 3 del I questionario in appendice) come opportunità per seguire meglio e sintetizzare, c'è un 17,5% complessivo di ragazzi che non prende mai note (con percentuali più alte alle medie, il 30%, ed alle elementari, il 22%). Chiaramente per potere instaurare delle abitudini positive in tal senso sarebbe bene partire proprio dai livelli più bassi con interventi specifici.

Dall'altra parte, quella dei docenti (vedi domanda 9 del II questionario), c'è un 7% complessivo (con un picco del 23% all'Istituto tecnico) che dichiara di non avere mai affrontato il problema. Come percentuale non è altissima, anche se è da riscontrare una discrepanza tra i due dati (nel senso che, a fronte della bassa percentuale sopra riportata, ci si potrebbe aspettare un numero più sostanzioso di studenti usi a prendere appunti).

Per la domanda n. 12 (vedi questionario I in appendice) che era uno stimolo indirizzato ai ragazzi perché sviluppassero autopercezione per quanto riguarda i livelli di attenzione (e quindi non uno strumento per stimare in maniera oggettiva  la quantità di minuti per ora in cui essi riescono effettivamente a seguire le lezioni, al cui riguardo esistono comunque delle ricerche internazionali8), ebbene le loro valutazioni risultano abbastanza realistiche. Il 44,5% degli studenti (la maggioranza relativa) giudica che la loro attenzione media per ora sia compresa tra 0 e 35 minuti.

Anche gli insegnanti (vedi domanda n.3 del II questionario) producono stime realistiche: il 53,9% di loro colloca in un intervallo compreso tra 15 e 30 minuti la media di attenzione dei loro alunni per unità oraria (ma …..ne terranno conto nelle loro attività di classe?).

La domanda n. 14 (vedi I questionario in appendice) legittimamente potrebbe essere considerata anche come facente parte delle strategie ritentive. Ma le questioni nominalistiche hanno scarsa importanza. Il 24,7% complessivo dei discenti non sottolinea mai quando legge (con livelli più alti alle medie, 50% - il cui campione non era però numeroso, quindi è probabile che i dati non siano del tutto attendibili -, ed alle elementari, 37,3%); complessivamente il 27% circa di alunni sottolinea alla prima lettura (sono il 37% se consideriamo solo gli studenti delle superiori); i picchi più bassi sono alle elementari (14,1%). C'è un certo parallelismo nella composizione dei dati tra le risposte codificate con A e quelle con B (vedi appendice e tabulato dati). Si sottolinea, cioè, di meno alle elementari rispetto alle superiori, ma se si sottolinea comunque ed alla prima lettura, allora è più probabile che questo avvenga alle superiori rispetto alle elementari.

Se si osservano attentamente i due set di cifre si nota una differenza sostanziale. Il valore del chi quadrato risulta davvero significativo (p<0,001).

Come si spiega tale difformità?

La risposta ci viene fornita da alcune delle giustificazioni addotte dagli stessi alunni. La matita o l'evidenziatore vengono impiegati come espedienti per guidare l'attenzione, strumenti per spingere "avanti" gli occhi. Alcuni dei discenti, infatti, asseriscono di utilizzare colori diversi: uno per la prima lettura, un altro per la seconda, per delimitare le "cose" importanti. Curioso ed interessante quello che dice una persona: "sottolineo con la matita alla prima lettura, ma poi alla seconda o terza lettura con la gomma cancello tutto quello che mi sembra inutile!"

Allora, data questa situazione, è da ipotizzare, come è stato fatto sopra, che al crescere dell'età crescono, statisticamente parlando, rumori di fondo interiori d'interferenza e che, quindi, per combatterli, vengano utilizzati "binari" per l'attenzione.

   

III^ area: strategie ritentive (o classe C)

 

Per quanto riguarda le strategie ritentive, ed in particolare la domanda n. 6 del I questionario in appendice, la maggioranza degli studenti, il 64,6%, ripete a voce alta, solo una minoranza, il 27%, ripete silenziosamente. Questo dato contrasta con quello ricavato dall'altro strumento: soltanto il 17,6% dei docenti (vedi domanda n.5 della II appendice) consiglierebbe ad un ragazzo di ripetere a voce alta. Perché allora gli studenti ripetono in maniera  massiccia a voce alta?

Certo qualcuno dice che ha ricevuto il consiglio dalla mamma o da un familiare, ma questi casi sporadici non giustificano una percentuale così alta. Ci sono almeno tre altre possibili spiegazioni.

Da un punto di vista culturale l'oralità nella cultura italiana ha un peso superiore rispetto ad altri Paesi, per cui, visto che da noi studiare significa ripetere poi a qualcuno, allora è bene prepararsi all'evento provando per conto proprio a voce alta.

Da un punto di vista psicologico, è un sistema di gestione dell'ansia. Nel questionario sono frequenti giustificazioni del tipo: "ripetendo a voce alta, immagino di avere di fronte la professoressa", "mi metto di fronte allo specchio e provo più volte", "voglio sentire il tono della mia voce e come suona, altrimenti mi sentirei quasi impreparata!".

Da un punto di vista cognitivo, è un modo di gestire la mente. Sono ricorrenti espressioni del tipo: " ripetendo a voce alta, non penso a giocare", "così memorizzo meglio", "riesco a capire meglio, perché sentendo la mia stessa voce è come una spiegazione", "così mi entra in mente meglio", "se uno studia silenziosamente ha subito l'impressione che sa tutto, ma poi quando deve ripetere veramente, si accorge che ci sono molti concetti che non ha imparato bene", "quando ripeto a voce alta mi ricordo della spiegazione della maestra", ecc. ecc. Da qualcuno questa modalità viene poi associata al passeggiare ed allo "stare lontano dal libro".

Indubbiamente il ripetere a voce alta è molto, molto costoso in termini di tempo e sarebbe utile in classe offrire pratiche alternative per una migliore gestione dell'ansia ed una più efficace memorizzazione. Ciò è un compito, magari sotto forma di gioco cognitivo, che potrebbero svolgere gli stessi docenti. Comunque non si dimentichi che la stessa strategia potrebbe adempiere a mansioni diverse nei vari soggetti. Ecco perché è necessario sempre compiere, come si diceva prima, un'indagine accurata ed in profondità prima di proporre l'intervento opportuno.

Per quanto riguarda uno degli stili cognitivi trattati con una domanda specifica nel questionario alunni (vedi domanda n. 16), la maggioranza relativa degli studenti, il 46,4% degli studenti, dice che ama di più soltanto leggere invece che vedere le figure. La percentuale è più alta alle elementari, 51,4%, dove evidentemente l'oralità e la narratività hanno un peso leggermente superiore. E', invece, il 42% circa se consideriamo le superiori soltanto. Lo stile visivo è dichiarato proprio dal 27,3%, cui comunque bisogna aggiungere un 20,5% di alunni "equilibrati" che contemporaneamente leggono e guardano le figure.

Chi dichiara di preferire le figure alla lettura lo fa con dichiarazioni del tipo "uno così capisce in maniera più immediata e veloce", "tutto è lì subito davanti agli occhi", ecc., ecc.

Dall'altra parte (vedi domanda n. 6 del II questionario in appendice) abbiamo un 25% di insegnanti che comunque non fa uso di figure, neanche di quelle riportate nei libri di testo. Il picco più alto è il 50% di docenti del Liceo Socio-Psico-Pedagogico (e forse ciò non deve stupire più di tanto, considerato che non è costume degli autori e degli editori inserire immagini nei testi di pedagogia, filosofia, italiano, ecc.).

In definitiva sarebbe bene che ci fosse da parte degli insegnanti un uso più frequente di figure, grafici, cartine, ecc., ecc., in modo da avere una corrispondenza con gli stili cognitivi. 

Per l'altro stile (analitico/globale) a riguardo del quale era stata inserita una domanda specifica (vedi l'item n.7 del I questionario), la polarità  analitica prevale con una maggioranza del 51%. Chi sceglie questa modalità apporta giustificazioni del tipo "così riesco a fare tutto con precisione", "ho paura che se facessi diversamente perderei il filo", "altrimenti non capirei bene". In queste ed altre espressioni, che non riporto per esigenze di sintesi, c'è come la concezione che dietro ogni parola si nasconda un mondo di mistero. L'argomento da studiare è un universo sconosciuto da esplorare diligentemente e con calma.

La teoria della conoscenza che molti di questi discenti palesano è reticolare, labirintica. Insomma per capire bisogna provare tutti i sentieri e i cammini; solo così, facendo e rifacendo pazientemente gli itinerari, si può assimilare qualcosa.

Chi invece sposa una teoria globale, vede la conoscenza come un mondo radiale, basta catturare i raggi e vedere in quale direzione portano. Gli alunni di quest'ultima polarità adducono, infatti, giustificazioni come "do prima una scorsa per vedere se le nozioni sono nuove o che cosa so e che cosa non so", "vedo immediatamente il contesto, così sono in grado di inquadrare meglio i concetti da studiare", "solo in un secondo momento si può capire quali sono i dettagli importanti da apprendere", ecc., ecc.

Al riguardo sarebbe interessante che i discenti avessero l'opportunità in classe di compiere esperienze guidate di entrambe le modalità e fossero in grado, alla fine, di usarle ugualmente secondo le circostanze.

Un'ultima osservazione è da farsi per quanto riguarda i due stili cognitivi appena menzionati. Per Riding9 essi sono gli assi attorno a cui possono essere in buona sostanza ricondotti tutti gli altri stili di cui s'è parlato fino ad oggi nella letteratura del ramo. Inoltre essi possono ordinati a secondo della loro possibilità di offrire risorse complementari uno all'altro. Date, insomma, le combinazioni possibili delle quattro polarità (e cioè, da una parte l'asse globale/analitico, dall'altra quello visivo/verbalizzatore), noi troviamo ad un'estremità agglomerati "complementari" (globale/verbalizzatore oppure analitico/visivo: "complementari" perché, nel primo caso, il "globale" può sfruttare, quando necessario, le proprietà analitiche proprie del "verbalizzatore", nel secondo, invece, l'"analitico" può utilizzare lo sguardo d'insieme proprio del "visivo"). A metà ovviamente saranno collocate tutte le situazioni personali più sfumate e di natura intermedia. Ma all'altra estremità troveremo condensati "unitari". Il "globale/visivo" o l'"analitico/verbalizzatore" non hanno, cioè, strutture accessorie cui ricorrere e quindi, ad es., in una situazione scolastica in cui quelle qualità sono richieste da determinate discipline tali alunni potrebbero trovarsi in serie difficoltà.

Dai dati finali della presente ricerca emerge come una buona percentuale di alunni (il 36,4% circa di studenti, ovvero 156 su 429) abbiano uno stile "unitario" ("globale/visivo" o "analitico/verbalizzatore", con una marcata prevalenza, però, dell'agglomerato "analitico/verbalizzatore", che costituisce il 69,9% degli stili "unitari").

E' da presumere che questi discenti possano incontrare difficoltà, anche serie, nella loro carriera scolastica.

Per quanto riguarda gli espedienti mnemonici veri e propri (vedi domanda n. 11 del I questionario), la maggioranza relativa degli studenti (il 49,2%) adotta normalmente come strategia ritentiva, nel senso classico del termine, quella del ripetere e….ancora ripetere, molto costosa per la fatica richiesta e abbastanza dispendiosa in termini di tempo impiegato. Questo modo viene usato di più alle elementari (dal 68,4% dei bambini; uno tra loro scrive "arrivo a ripeterla anche 10 o 12 volte!"): evidentemente man mano che si cresce si apprendono tecniche più convenienti ed efficaci. L'uso minimo del ripetere è al classico (con il 24,6%): probabilmente l'avere un repertorio ricco di tecniche alternative (come associazione ad immagini, schemi, uso di freccette sul libro, utilizzo di mappe concettuali, utilizzare l'incubazione ovvero studiare la sera e riprendere i concetti poi la mattina del giorno successivo, ecc., ecc.) è in un qualche modo relato alla scelta di studi "difficili" (ad es. Liceo classico), tali almeno secondo quanto si dice in giro.

Preoccupa quel 9,3 % complessivo (vedi appendice) che non sa come si può fare a ricordare meglio.

Per la domanda n. 15 (vedi I questionario in appendice), via via che si sale d'età ci si rende conto che è necessario essere più attivi, anche semplicemente scrivendo, prendendo appunti perché così si ricorda meglio e ci sono anche meno probabilità di distrarsi. Infatti, si passa dalle elementari con il 24,3% di scelta dell'opzione dell'ascoltare scrivendo (come migliore possibilità per apprendere) alle superiori con il 62% circa. Durante l'infanzia prevale, come s'è già detto l'oralità. La domanda n.15 richiama in un certo senso la 14, perché anche questa strategia dello scrivere può essere considerata come attentiva. 

   

IV^ area: strategie risolutive (o classe D)

   

Non tutte le strategie utilizzate per superare i problemi che durante lo studio possono presentarsi sono funzionali allo stesso modo.

Ad es. nella gestione della stanchezza ci sono, secondo il mio parere, alcune cattive abitudini. Ed una di esse consiste nell'andare avanti comunque nell'apprendimento, anche quando si è esausti, perché presi dalla frenesia di arrivare al più presto alla fine. Infatti una buona percentuale complessiva, il 42,2% di studenti (vedi domanda n. 8 del I questionario), dichiara di non riposarsi mai quando studia, se non appunto alla fine. Le giustificazioni ricorrenti sono del tipo "non vedo l'ora di finire", "così posso andare a giocare il più presto possibile", "se mi fermo non riesco più a ricominciare", ecc., ecc. Dal punto di vista di un impiego più razionale delle risorse, mi sembra, invece, che sarebbe preferibile avere unità di apprendimento non lunghe, anche inferiori all'ora, intervallate da brevi pause. Questo è almeno quello che suggerisce l'esperienza10. Periodi di studio di tre ore senza nessuna pausa, come alcuni discenti affermano, rischiano di ingenerare solo una grande confusione.

Questa abitudine ad un impegno intervallato da brevi soste è da creare partendo proprio dalle elementari, laddove tale costume del vedere l'apprendimento come un unico, indivisibile blocco è più radicato (con il 53,7% di risposte in tal senso).

Per quanto riguarda i modi di scaricare lo stress (vedi domanda n. 9 del I questionario) si richiama quanto già detto a proposito della n. 4. Infatti, aumenta l'uso della musica come modalità per rilassarsi con il crescere dell'età, dal 6,2% delle elementari si passa al 25,3%  dell'Istituto professionale.

Per la domanda n. 10 riguardante le strategie risolutive in senso proprio, cioè il da farsi quando non si comprende un concetto, ebbene se alle elementari c'è un trascurabile 3,4% che non fa nulla al riguardo, cioè che rinuncia a capire, tale percentuale sale dopo fino al 15,2 % dell'Istituto tecnico. E questo livello diventa già preoccupante perché porta all'abbandono ed alla dispersione.

Il 60,5% dei bambini delle elementari risolve tutto in famiglia (chiedendo a mamma o papà); ovviamente tale percentuale scende alle superiori, dacché "le nozioni diventano più specialistiche" o c'è meno desiderio di farsi aiutare dai parenti; e allora intervengono gli amici o il docente.

Alcuni alunni, una minoranza comunque cospicua, esattamente il 31,7% del totale generale, hanno strategie autonome per risolvere l'"incomprensione": ad es. riflettono "con attenzione richiamando tutti i concetti conosciuti al riguardo", si fanno uno "schema concettuale dell'argomento per chiarirsi le idee" oppure leggono "l'argomento su un altro libro", ecc., ecc.

Per quanto riguarda la n. 13 del I questionario e la n. 4 del II questionario (vedi appendice), bisogna dire che c'è un vistosa difformità di vedute tra alunni e docenti. Ed essa richiama, confermandola, la discrepanza già vista a proposito della I domanda (in entrambi i questionari).

La maggioranza relativa dei primi afferma, infatti, che l'attività più noiosa e pesante in classe è la spiegazione dei docenti (e sono il 50% di alunni delle superiori, il 53,3% della scuola media, anche se solo il 23,1% delle elementari, per un doppio motivo, innanzitutto perché l'oralità ha un certo peso, come s'è visto ripetutamente, e poi perché c'è stata una variabile imprevista che ha interferito nelle risposte: molti infatti hanno inserito non il tipo di attività ma un'attività concreta, ad es. una materia).

I docenti, al contrario, ritengono che l'attività più noiosa sia l'interrogazione (al 43,4%) e mettono la spiegazione addirittura all'ultimo posto come livello di noia (con uno striminzito 5,3%)!

Sarebbe il caso che le due percezioni si incontrassero e confrontassero.

Infine la domanda n. 8 del II questionario in appendice voleva saggiare se i docenti erano coscienti delle difficoltà nella comprensione dei libri di testo (così come in buona misura svelate dagli stessi alunni nelle loro risposte alla I domanda).

Ebbene il 57,5% degli insegnanti (percentuale ottenuta sommando le risposte B+C+D) è portato a pensare che l'impegno degli studenti non sia stato sufficiente, che non sono stati attenti oppure che stanno solo cercando una scusa più di quanto non siano inclini a credere che "il testo è difficile" (opzione scelta dal 42,5%).

Invece, molti dei libri di testo sono difficili (cioè scritti per i colleghi, non per i discenti).

Sarebbe il caso che tutti fossero più consapevoli di ciò e vi prestassero maggiore attenzione, non solo in fase di scelta dei testi, ma anche nel lavoro quotidiano in classe.

   

Conclusioni

   

Un nuovo modello per dare ordine teorico ai vari profili apprenditivi e d'insegnamento ha trovato applicazione nella presente ricerca.

Dalla indagine sono emerse discrepanze evidenti tra i sistemi di insegnamento ed i sistemi di apprendimento.

Le discrepanze sono, però, fonte di difficoltà e di dispersione scolastica (come risulta da tante esperienze e ricerche condotte a livello internazionale).

Per potere accordare i due sistemi sarebbe necessaria un'analisi preventiva, ovviamente all'inizio dell'anno scolastico e classe per classe, delle prassi, degli orientamenti e delle concezioni di studio presenti in quei particolari alunni e docenti. Essa peraltro, come l'esperienza derivante da questo studio suggerisce, non sarebbe da immaginare come qualcosa di assolutamente oneroso né in termini di tempo né in termini di costo. A conclusione, poi, di tale esame, si potrebbero proporre le opportune, nuove esperienze di studio, anche sotto forma di gioco cognitivo, importanti comunque sia per arricchire il bagaglio delle possibilità dei discenti sia per porre le basi del loro successo scolastico. I docenti, dall'altra parte, potrebbero calibrare meglio i metodi abitualmente utilizzati.

Attività di studio diverse dal solito, gratificanti sono sicuramente anche un buon viatico per il miglioramento dell'autostima negli studenti.

Un'esigenza che emerge, infine, come prioritaria dall'inchiesta è quella di legare maggiormente la lezione con lo studio e lo studio con la valutazione. Le divaricazioni tra questi momenti creano senz'altro problemi all'apprendimento.

Credo che sia ormai necessario, a livello di comunità di ricerca, passare dalla fase dell'analisi e delle definizioni alla fase delle proposte, per saggiarne l'efficacia.

Proprio per questo è nato il progetto di un intervento a largo spettro che si svolgerà nel 2003/2004 in collaborazione con il CSA (ex Provveditorato agli Studi) ed il Laboratorio educativo territoriale provinciale di Ragusa.  

                                                                                                                             Prof. Giuseppe Tidona

   

Ragusa, autunno 2003

   

 

1 mi pare opportuno segnalare, fra i numerosissimi studi, svolti sia in Italia che all'estero, il lavoro di Dunn R. e Dunn K., Teaching students through their individual styles. A practical approach, NY, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1978.

2 v. la rassegna (e conseguente classificazione) compiuta da Grigorenko e Sternberg in Styles of thinking, abilities, and academic performance. Exceptional children, 63 (3), 1997, pp. 295-312.

3 vedi il suo volume Thinking styles, NY, Cambridge University Press, 1997; trad. italiana, Stili di pensiero, Trento, Erickson, 1998.

4 al riguardo resta fondamentale il lavoro di Dunn & Dunn, autori già citati. Significativo un loro volume, più recente rispetto a quello menzionato sopra, scritto assieme a Carbo, Teaching students to read through their individual learning styles, NY, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986. Altrettanto importante la ricca letteratura sulla task analysis; basti citare un volume per tutti: Gagné, Briggs, Wager,  Principles of instructional design (3nd ed.), NY,  Rinehart &Winston, 1988.

5 vedi il contributo di Chi-yue Chiu, Ying-yi Hong e Carol S. Dweck al volume curato da Sternberg e Ruzgis, Personality and  Intelligence, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; trad. italiana, Personalità e intelligenza, Trento, Erickson, 2000 e il volume a cura di Albert Bandura, Self-efficacy in Changing Societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; trad. italiana,  Il senso di autoefficacia, Trento, Erickson, 1996.

6 vedi al riguardo il cosiddetto "effetto Pigmalione", così definito da R. Rosenthal e L. Jacobson in,  Pygmalion in the Classroom, Irvington Publishers, Inc , 1992; trad. italiana, Pigmalione in classe, Milano, Franco Angeli, 1992.

7 Al riguardo mi pare degna di menzione la visione che ha ispirato la stesura del volume Imparare a studiare 2,  a cura di Cesare Cornoldi, Rossana De Beni e Gruppo MT, Trento, Erickson, 2003.

8 vedi il contributo di J. Edwards, Thinking and Change, in Creative Thinking. A Multifaceted Approach (volume a cura di Sandra Dingli), The University of Malta, 1994;  o anche il testo di J. Goodlad, A Place Called School: Prospects for the Future, NY, Mc-Graw-Hill, 1984.

9 vedi il suo contributo dal titolo "The Nature and Effects of Cognitive Style" al volume curato da Robert J. Sternberg e Li-Fang Zhang, Perspectives on Thinking, Learning, and Cognitive Styles, London, Lawrence Erlbaum, 2001, pp.47-72.

10 vedi alcuni dei volumi di Tony Buzan, ricchi di consigli pratici fondati sull'esperienza dell'autore come formatore, ad es., Make the Most of Your Mind, London, Pan Books , 1988, oppure,  Use Your Head, London, BBC, 2000.  

Altri studi del Prof. Giuseppe Tidona su questo sito:

 

Studiare e pensare: i risultati di un esperimento (maggio 2004)

Studenti capaci e studenti incapaci (maggio 2003)

    Il tema: quali metodiche per aiutare gli studenti nello sviluppo di idee? (gennaio 2003)

  Riflessività e creatività a scuola: le lezioni Co.R.T., un secondo esperimento. (settembre 2002)

Competenze e ... sesso (gennaio 2002)

E' possibile migliorare la creatività e la riflessività dei ragazzi? (settembre 2001)

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 21 giugno 2011